di Mario Galli *
Nelle principali aree economiche mondiali sono in atto, da anni, crisi strutturali che hanno radici lontane e che sono, in realtà, diversi modi di manifestarsi della medesima crisi. Tale situazione è ormai entrata in una fase finale, preludio a nuovi storici cambiamenti di scenario, cui cominceremo ad assistere già dal prossimo anno. Il sistema politico, economico, finanziario nato nel secondo dopoguerra, non tiene più. I prodromi di quella che oggi appare come la fase finale di una storica crisi strutturale globale erano già individuabili negli anni 70 del secolo scorso e, nel corso dei decenni, hanno assunto dimensioni crescenti, al punto tale da diventare, oggi, ingestibili.
La crisi degli Stati Uniti e del dollaro, rischi e conseguenze
Gli Stati Uniti d’America, usciti dalla seconda guerra mondiale indenni, con l’apparato industriale intatto e l’unica, tra le maggiori monete, convertibile in oro, hanno approfittato di questa situazione di assoluto privilegio per indirizzare l’economia mondiale e, al tempo stesso, accrescere a un livello imperiale il loro potere. La fase, per così dire, virtuosa, della crescita statunitense è durata fino a tutti gli anni 60, fino a quando l’insostenibilità della sua posizione debitoria costrinse le Autorità a dichiarare la fine della convertibilità del dollaro in oro.
Da quel momento ha origine la crisi americana, che ha avuto una evoluzione molto lunga e in due fasi: nella prima, gli USA, avvalendosi del privilegio di stampare senza limiti una moneta fiduciaria (senza alcun referente materiale), consistente in puro debito, ma totalmente accettata nel mondo, hanno conquistato il primato, culminato con la fine del comunismo e dell’unica vera potenza rivale, ovvero l’URSS, conquistata (anche culturalmente) negli anni 90.
A questo punto, impostisi come modello assoluto in tutto il mondo, gli Stati Uniti hanno puntato ancora più in alto. Grazie alla stampa (senza limitazioni) di denaro accettato ovunque, la finanza americana ha conquistato una posizione di dominio nei confronti di tutti gli altri settori economici. Il passo successivo è stata la globalizzazione, attraverso la quale si è tentato di contenere, per decenni, il rischio inflazionistico dovuto agli eccessi di emissione monetaria, trasferendo la produzione industriale all’estero e accrescendo così a dismisura i profitti, senza badare in alcun modo ai contraccolpi interni, soprattutto a livello di benessere della classe media, alla quale, per evitare problemi sociali, si decise di prestare denaro in modo crescente e a condizioni sempre più vantaggiose. Il resto è storia dei giorni nostri: gli Stati Uniti hanno raggiunto un livello insostenibile negli squilibri economico-finanziari, sia pubblici che privati, che hanno manifestato una magnitudo crescente a ogni crisi finanziaria che, inevitabilmente, ha caratterizzato gli ultimi decenni.
Oggi è in discussione il ruolo dominante degli Stati Uniti stessi e del dollaro, con enormi rischi e possibili conseguenze catastrofiche. L’innalzamento del rischio geopolitico e il conflitto con la Russia, se da un lato consentono all’America di far funzionare a pieno regime l’industria degli armamenti e l’apparato di difesa, dall’altro stanno aggravando ulteriormente quegli squilibri economico-finanziari che minacciano il ruolo dominante degli USA e del dollaro, nel mondo.
Washington necessita di costanti ed enormi flussi di capitali verso dollaro, titoli di stato, azioni (il valore di questi asset ha, tra l’altro, una relazione diretta con l’andamento dei consumi, attraverso il cosiddetto "wealth-effect", l’”effetto ricchezza”) per poter continuare a esistere, ma la sfiducia internazionale nel ruolo dominante americano, nel dollaro stesso, emesso in quantità fuori controllo e, in ultimo, nella leadership e nel complesso di valori che in precedenza avevano caratterizzato la democrazia capitalistica statunitense, pone seri dubbi sulla possibilità e la capacità della classe dirigente USA di rimediare o invertire il corso della crisi stessa.
Cina, occorre cambiare modello di sviluppo, ma non sarà facile, né rapido
La Cina fu, dagli anni 90, il Paese preferito dalla classe dirigente degli Stati Uniti, che adottarono con il Paese un approccio diverso rispetto a quello con la Russia, anche e proprio allo scopo di mantenere divise le due nazioni. La Cina divenne destinazione privilegiata degli investimenti statunitensi, allo scopo di delocalizzare la produzione industriale americana. Con l’ingresso della Cina nella WTO (World Trade Organization), nel 2001, si crearono le premesse per l’invasione dei mercati internazionali di prodotti cinesi a basso costo.
Questo processo funzionò bene, nella fase iniziale, perché la disoccupazione creatasi in Occidente fu compensata da iniziative di espansione del credito senza precedenti, ma esso entrò poi i crisi, sia per l’aumento dei costi della produzione cinese, che per l’inevitabile esaurimento del potenziale di consumi da parte dell’Occidente. A ciò si aggiunga che l’amministrazione cinese, divenuta sempre più consapevole del fatto che i poteri economico-finanziari occidentali intendevano favorire lo sviluppo del Paese, ma solo tenendone le redini in Occidente e impedendone autonome linee di sviluppo, reagì negli scorsi anni, rivendicando la propria piena sovranità ed epurando la propria classe dirigente dalle infiltrazioni occidentali.
A seguito della crisi finanziaria del 2008 e del crollo dei consumi e commerci internazionali iniziò il deterioramento dei rapporti tra Cina e Stati Uniti, culminato di recente nell’abbandono del Paese da parte dei grandi investitori occidentali, nelle politiche commerciali protezionistiche americane e nell’aggravamento dei rapporti geopolitici tra Washington e Pechino. L’amministrazione cinese, in presenza di una preoccupante frenata dell’economia, investì ancora più fortemente nelle infrastrutture e, soprattutto, cominciò a stimolare, con modalità senza precedenti, lo sviluppo del settore costruzioni-immobiliare, che fu la vera e propria colonna economica degli ultimi anni, arrivando a pesare per circa il 30% del Pil.
L’entrata in crisi di questo settore (tra il 2016 e il 2018), per eccessi di investimento, errata allocazione di capitali, speculazioni sfrenate (il mercato immobiliare è sempre stato la destinazione preferenziale dei risparmi cinesi), dissesti societari e bancari, mette oggi il Paese in una situazione di estrema delicatezza, in cui esso dovrà mutare il proprio modello di sviluppo, puntando non più sulla produzione per l’export, ma soprattutto su consumi e investimenti privati. La qual cosa non è affatto facile, né potrà essere rapida, anche alla luce del fatto che il governo ha ancora un ruolo centrale nell’economia e nella finanza, come proprietario dei maggiori gruppi industriali e del settore bancario.
Unione Europea e Europa, epicentro della crisi globale
Seppure in un mondo complessivamente in grave crisi ed in rapido cambiamento, l’epicentro della crisi stessa sembrerebbe essere nell’area europea. L’andamento dell’economia nel continente sta assumendo caratteristiche catastrofiche e ciò è dovuto, a nostro avviso, al fatto che scelte politiche, indirizzi economici e, più in generale, decisioni strategiche non sono prese all’interno del continente stesso o dalle autorità nazionali e sovranazionali ivi esistenti, ma riflettono indicazioni e direttive adottate altrove e, in particolare, nell’ambito di multinazionali, istituzioni bancarie, grandi investitori internazionali, alleanze militari (NATO/OTAN), governi stranieri, che sono facilmente in grado di influire sulle istituzioni politiche europee.
La struttura politica dell’Unione appare fragile e incapace di agire realmente nell’interesse dell’area. La centralità del sistema bancario e dell’euro, in assenza di istituzioni politiche nazionali e sovranazionali realmente autonome e indipendenti, rende ancora più fragile il sistema europeo, costantemente in balia di decisioni prese fuori dal medesimo, nei reali centri di potere che determinano i destini d’Europa. Se la potenziale fragilità europea non era particolarmente evidente nei periodi di prosperità, lo sta diventando ora che l’azione combinata delle crisi americana e cinese, unitamente al conflitto NATO/Ucraina, stanno avendo riflessi drammatici sulle condizioni economiche del continente, con prospettive future sempre più pesanti; in tempi di crisi come quelli attuali l’Europa, priva di reali difese, potrebbe diventare oggetto di saccheggio di tutti i suoi beni più appetibili. Inoltre è interesse degli USA come della Cina eliminare concorrenti economici pericolosi come la Germania, l’Italia, la Francia, continuando a tenere questo forte nucleo economico europeo ben distante e in continuo conflitto con la Russia.
Delle tre situazioni di crisi qui sinteticamente descritte, quella europea appare la più complessa e aleatoria, al punto che riesce molto difficile individuare i possibili punti di svolta e, in generale, l’evoluzione futura dell’Unione, come delle diverse nazioni che la compongono.
* Analista e consulente indipendente sui mercati delle materie prime