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Il Federalista
18.03.24 - 11:180

Inchiesta su TikTok. Gli USA dichiarano guerra al giocattolo di Xi Jinping. E Berna che fa?

Il social tra un video e l’altro diffonde notizie distorte, confezionate a Pechino. Ma il vero effetto dirompente riguarda i danni allo sviluppo cognitivo dei giovani. Se ne accorgerà anche il nostro Parlamento?

Contributo a cura della redazione de ilfederalista.ch

Gli Stati Uniti saranno il primo Paese occidentale a mettere totalmente al bando il social cinese TikTok? La proposta bipartisan approvata mercoledì alla Camera con uno schiacciante 352 voti a favore contro 65 sembrerebbe portare a compimento il progetto di mettere fuori legge quella che viene sovente indicata come una minaccia per la sicurezza nazionale a stelle e strisce.

Secondo la legge votata dai deputati, la società ByteDance, che controlla la piattaforma, dovrebbe cedere TikTok a un proprietario non cinese. Se ciò non avvenisse, l’applicazione e il social saranno messi al bando dagli smartphone e dai PC statunitensi. Il Senato, che oggi ha cominciato ad affrontare il fascicolo, sembra voler procedere con più cautela o, perlomeno, rallentare i tempi. Di mezzo vi sono numerosi e corposi interessi.

Negli USA i più preoccupati per una possibile messa al bando di TT sono le categorie professionali più direttamente toccate: migliaia di creatori di contenuti, innanzitutto, poi anche istituzioni e professionisti che hanno fatto di TikTok una vetrina delle loro attività, che consente loro di raggiungere fasce d’età (adolescenti e ventenni) normalmente non più interessata ai “vecchi” social network come Facebook.

Già nel 2020 l’allora Presidente Donald Trump provò a strappare TikTok dalle mani cinesi per affidarla possibilmente a un gruppo americano, ma senza ottenere risultati. Curiosamente, proprio Trump pare aver cambiato idea (e con lui il sinistro “portavoce” di Putin, Tucker Carlson) e si colloca ora tra gli oppositori della legge. A suo dire la messa al bando di TikTok potrebbe favorire Meta, la proprietaria di Facebook e Instagram, due social antipatizzanti dell’ex presidente.

Forse però il vero motivo di questo suo cambio di rotta è da ricercare nella contrarietà con cui le fasce più giovani dei potenziali elettori americani stanno guardando all’operazione. Una fascia di pubblico che negli USA, come vedremo, riceve e cerca le sue informazioni quasi esclusivamente sul “social dei balletti”. E al contempo un bacino di voti che potrebbe diventare fondamentale nella corsa alla Casa Bianca (lo stesso Biden vi ha appena inaugurato un profilo).

La vicenda finirà probabilmente in tribunale, anche perché la casa madre non accetterà certamente di farsi sfilare uno dei successi commerciali più importanti dell’high tech cinese. Ieri il Ceo di TikTok, Shou Zi Chew, ha invitato gli utenti americani a ribellarsi, in nome dei “diritti costituzionali”. Mentre funzionari cinesi hanno accusato gli USA di “bullismo” e “repressione” (ricordiamo che in Cina i social americani sono fuori legge da anni).

Se una piattaforma cinese diventa la principale fonte di informazione negli USA

170 milioni: questo il numero di utenti di TikTok negli Stati Uniti oggi. Un numero impressionante, se pensiamo che la piattaforma cinese di video è stata lanciata sulla rete internazionale nel 2016, e se consideriamo che il numero di abitanti del Paese a stelle e strisce è di poco superiore ai 330 milioni: più di un utente ogni due abitanti. 

Per molti, TikTok non è altro che una piattaforma sulla quale i giovani condividono video in cui ballano o compiono sfide più o meno divertenti: un passatempo in qualche modo paragonabile alle discoteche degli anni '80. Ma è veramente così? Non proprio. 

Su TikTok, infatti, tra un balletto e l'altro, spopolano anche contenuti informativi e politici. E TikTok è un'azienda cinese, libera di decidere cosa mostrare e cosa no, quali video mettere in evidenza e quali censurare. 

Significativa una provocazione lanciata dal New York Times: "Si immagini se una società americana con stretti legami con Washington fosse una delle principali fonti di notizie in Cina oggi. Oppure se un’organizzazione sovietica avesse posseduto una rete televisiva statunitense negli anni ’60 – e fosse stata una delle principali fonti di notizie per gli americani sotto i 30 anni". Due analogie, queste, che certamente illuminano la portata della controversia e la ragione di tanto allarme

Con un filo di ipocrisia forse: giacché, a ben guardare, proprio le grandi aziende proprietarie dei social media statunitensi hanno colonizzato culturalmente l’Europa e tanta parte del mondo. Ma non ci sono riusciti con la Cina che, come detto, accortasi dell’incidenza di tali strumenti, si è infatti subito premurata di vietare Facebook, Instagram, Whatsapp, Twitter, Reddit, Pinterest, Snapchat e molti altri siti, social e app di messaggistica stranieri. E in qualche modo, paradossalmente, lo stesso TikTok. 

Se TikTok manipola l’informazione globale

L'app cinese è differente all'interno del Paese rispetto alla versione esportata nel resto del Mondo: in Cina si chiama Doujin. Il suo utilizzo è limitato -per legge- a 40 minuti al giorno e i suoi contenuti sono di natura completamente diversa rispetto a quelli proposti su TikTok: si tratta prevalentemente di contenuti culturali e di carattere pedagogico. Più che legittimo il dubbio che Pechino voglia istruire la propria gioventù e "rincitrullire" quella straniera.

Non è dunque sorprendente che il governo degli Stati Uniti, a pochi mesi dalle elezioni, decida di intervenire per imporre un'acquisizione domestica o in alternativa una messa al bando della piattaforma cinese. Sono molti gli studi che mettono in luce le modalità architettate da TikTok per manipolare l'informazione. 

Sempre il NYT informa infatti che sulla piattaforma spopolano contenuti volti a mettere in cattiva luce il Paese a stelle e strisce, suggerendo erroneamente che la Federazione versi in condizioni peggiori rispetto al 1930. E sebbene vi sia oggi una bassa disoccupazione e un calo dell’inflazione, un'infinità di video virali denigrano l’economia e le condizioni di vita americane. 

Di converso, uno studio della Rutgers University mostra come siano difficili da reperire sulla piattaforma i video su argomenti che non piacciono al Governo cinese (tra i quali il Tibet, gli uiguri, le proteste di Hong Kong e la repressione di piazza Tiananmen del 1989). L’assenza di questi argomenti emerge dal confronto con Instagram, piattaforma sulla quale tali contenuti sono normalmente presenti.

Ovvio d’altronde che la Cina si sia sbarazzata da tempo e celermente delle app straniere, prima che divenissero virali, non dovendo il Dragone fare i conti con quegli spiacevoli inconvenienti (opposizioni, dibattiti pubblici) che caratterizzano le società democratiche.

Ma dei danni sullo sviluppo cognitivo importa a qualcuno?

Resta purtroppo in ombra, anche nelle cronache che stanno raccontando la vicenda di TikTok in questi giorni, l’aspetto forse più preoccupante del social cinese, come del resto di tutti i formati simili che sono stati realizzati in seguito dai concorrenti occidentali (dai “reels” di Meta, agli “shorts” di Youtube). 

La piattaforma ospita un flusso di video in miniatura: contenuti divertenti, leggeri, a volte edificanti di soli 15-60 secondi, che si susseguono potenzialmente all’infinito per riproduzione automatica. Questo genera nel cervello, secondo il neuroscienziato francese Desmurget e numerosi altri ricercatori, un meccanismo simile a quello che si instaura in una scimmia da laboratorio sempre in attesa della prossima nocciolina.

“La piattaforma è una macchina della dopamina", ha detto al Wall Street Journal John Hutton, pediatra e direttore del Reading & Literacy Discovery Center presso l'ospedale pediatrico di Cincinnati. La dopamina è un neurotrasmettitore che il cervello rilascia quando si aspetta una ricompensa: "Un'ondata di dopamina rafforza il desiderio di qualcosa di piacevole, che si tratti di un pasto gustoso, di un farmaco o di un video divertente su TikTok".

Secondo alcune ricerche questo effetto risulta particolarmente dannoso su un cervello nelle sue fasi di sviluppo, durante l’infanzia e l’adolescenza. Un recente articolo di The Week ha riportato risultati di uno studio cinese (sfacciato paradosso) di recente pubblicazione i cui risultati “suggeriscono che i video su TikTok, e gli shorts di YouTube altrettanto concisi, coinvolgono gli utenti attraverso ‘brevi esplosioni di brividi’ e possono portare allo sviluppo di comportamenti di dipendenza”. 

Un altro studio di Nature Communication, riferisce sempre The Week, suggeriva che la nostra “capacità di attenzione collettiva sembra ridursi a causa della velocità con cui le persone consumano i contenuti sui social media”. “Macchine per strutturare la distrazione nel cervello”, le definiva il già citato Desmurget ripreso in precedenza dal Federalista. 

Gli effetti potenzialmente deleteri dei social network, come quelli descritti dagli studi citati (e che trovano il loro vettore più efficace in TikTok), non sembrano in realtà trovare molto spazio nel dibattito pubblico. La posta in gioco però è persino più importante, a noi pare, della pur rispettabile “sicurezza nazionale” dei nostri Stati (se ne sono accorti a Berna?).
 

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