di Felice Dafond*
Quanto c’è di vero e quanto è demagogia? Ho letto con interesse la filippica di Pino Sergi e la richiesta ai Comuni di una pretesa “moratoria per difendere il potere d’acquisto delle famiglie”. È un po’ come se andassi a far benzina e dicessi al gestore di una piccola stazione di servizio che l’aumento del carburante non lo pago, ma lo deve pagare lui, e non la ditta petrolifera. No, proprio lui, piccolo commerciante che investe tempo e denaro per mantenere la sua stazione di servizio.
Non entro nei dettagli della retorica di Sergi a favore di un controllo statale dell’economia (economia pianificata) e di conseguenza sulla sua avversione per le regole del libero mercato, nonostante il modello liberale abbia dimostrato di essere più equo, resiliente e migliore anche per i ceti più deboli. Mi pare che alla fine lo scopo di Sergi sia quello di far aumentare le imposte dei Comuni. Perché è chiaro che se tagli le entrate delle nostre aziende elettriche il comune quei soldi li deve prendere altrove. Ne consegue che oltre che a tartassare ulteriormente il ceto medio, si priverebbero i Comuni di risorse importanti, utilizzate anche per aiutare le fasce più fragili della popolazione, in un momento in cui i Comuni stessi sono già sotto pressione dal profilo finanziario.
L’aumento delle tariffe a cui saremo confrontati è stato causato in massima parte dalla riserva energetica, dalle prestazioni di sistema Swissgrid, dagli aumenti dei costi della rete a monte e dai costi del capitale. Vanno inoltre aggiunti i costi per l’acquisto di energia sul mercato che, sebbene siano diminuiti dal picco di agosto 2022, rimangono comunque 3-4 volte maggiori rispetto ai prezzi vigenti prima del 2021. Di conseguenza, i comuni non hanno avuto nessun ruolo negli aumenti per il 2023.
Bisogna inoltre ricordare che se è vero che i costi del capitale sono saliti è semplicemente perché gli interessi per i crediti bancari sono aumentati; quindi, anche i costi che le aziende elettriche devono sopportare per il proprio finanziamento sono maggiori.
In secondo luogo, afferma Sergi, la maggior parte delle principali società comunali di distribuzione di elettricità gode di ottima salute finanziaria, cosa che striderebbe con gli aumenti dei prezzi scaricati sull’utenza.
Ma non fa la differenza fra produttore e distributore, mescolando Azienda elettrica Ticinese con AIL, AMB, SES, eccetera. Purtroppo per tutti noi ticinesi i conti di AET nel 2022 hanno chiuso con una perdita di 56 milioni di franchi, e per il 2023 non credo si possa prevedere un risultato migliore. Aggiungo che usare gli utili delle società di distribuzione come metro di misura è troppo semplicistico: il legislatore svizzero ha concesso ai distributori di fare utili per permettere loro di ammodernare le proprie infrastrutture. Un paragone internazionale ha infatti dimostrato come in Svizzera la rete elettrica sia vetusta (e lo è ancora oggi) rispetto al resto d’Europa.
Non va inoltre dimenticato che la strategia energetica 2050 scelta da Berna impone grandi investimenti nella rete di distribuzione e ciò farà crescere ulteriormente le tariffe. Di conseguenza è importante continuare ad investire nella rete, sia per recuperare i ritardi accumulati, sia per permettere la realizzazione della strategia energetica 2050, votata dal popolo svizzero. Per alcune nostre aziende di distribuzione gli utili vengono investiti nell’ammodernamento dell’infrastruttura e la parte restante è distribuita ai proprietari, che sono pur sempre l’ente pubblico
(Cantone e Comuni). L’eventuale dividendo serve ai Comuni (penso per esempio alla Società elettrica sopracenerina) per ripagare il debito contratto negli scorsi anni per acquistare le azioni dell’azienda.
Ma anche se si volessero azzerare gli aumenti per i prossimi 3 anni, quindi mantenere i prezzi al livello del 2023, l’operazione costerebbe alle aziende di distribuzione decine di milioni di franchi. Questa eventuale perdita supererebbe largamente gli utili dei corrispettivi anni, e per almeno lo stesso periodo di tempo non sarebbe più possibile procedere a investimenti. Cosa che comporterebbe una diminuzione del personale (si stima un centinaio di persone distribuite sulle varie aziende) perché senza investimenti non ha senso impiegare progetti e squadre di operai.
Evidentemente, senza investimenti perderemmo altro tempo per l’ammodernamento della rete, quindi accumuleremmo ancora più ritardi, ma peggio ancora non saremmo pronti per la svolta energetica così come pensata nella strategia 2050: già oggi dobbiamo potenziare la rete per evitare sovratensioni causate da impianti fotovoltaici e ci sono giorni dove la stabilità di rete è messa in crisi. Senza adeguati investimenti corriamo un rischio reale di non permettere l’allacciamento di nuovi impianti fotovoltaici in determinate zone e di blackout a causa dell’instabilità della rete.
Oltre a tutto questo c’è anche da chiedersi cosa succederà con i prezzi nel 2027, quando scadranno i contratti a medio termine di acquisto di energia: ad oggi si ritiene poco probabile che ci sarà una diminuzione per arrivare ai livelli del 2023. Un’altra dimostrazione che il problema degli aumenti tariffali non si possono risolvere mantenendo artificialmente i prezzi costanti.
*Candidato al Consiglio nazionale, Sindaco e presidente dell’associazione dei comuni Ticinesi