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Politica e Potere
05.09.15 - 11:360
Aggiornamento: 19.06.18 - 15:41

Congresso PPD, Romano e Regazzi fra sorti del partito, futuro del Ticino, migrazione e Berna. “E la politica deve liberarsi da arroganza e piagnistei”

Romano: “Smettiamola di dire “no all’UE”, è qualcosa di evidente, diciamo cosa vogliamo e cerchiamo di realizzarlo!” Regazzi: “Siamo un modello di successo in tanti campi, sarebbe egoista e gretto se non lo fossimo anche nell’accoglienza”

LOCARNO – Fra gli interventi pronunciati dal palco del Palazzetto Fevi di Locarno, a prender la parola nel corso del Congresso del PPD sono stati anche Marco Romano e Fabio Regazzi. Due i filoni che hanno accomunato gli interventi dei due candidati uscenti al Nazionale: la riflessione sul partito stesso, che dopo il risultato cantonale di aprile deve trovare nuovo vigore e raggiungere il proprio obbiettivo alle federali riconfermando i suoi tre seggi; la necessità di rispondere con soluzioni ai facili proclami e questo in due temi di stretta attualità ticinese e non solo: l’emergenza migratoria e la crisi del mercato del lavoro.

Marco Romano

“Dopo la delusione di aprile – ha esordito Romano – è il momento di reagire. Dobbiamo vincere, non ci sono altre possibilità”. Perdere in questo momento un seggio alle Camere federali, ha aggiunto, “sarebbe un disastro. Non possiamo permettercelo. Solo questo dovrebbe essere motivo per un impegno straordinario da parte di tutte e tutti”.

Romano, senza voler creare panico, ha messo chiaramente le carte in tavola: il secondo seggio al Nazionale è in pericolo. “Il rischio è concreto. Abilmente, il PLR si sta battendo per guadagnare un terzo seggio. Affermano a scapito della destra (Lega-UDC), ma la matematica è impietosa, rendiamoci conto che i primi a “saltare” saremmo noi. Da questa sala deve assolutamente partire una reazione. Ne va del futuro del PPD!”

Il discorso è quindi passato sull’operato dei tre rappresentati PPD a Palazzo: “È un lavoro di fondo, non di proclami. Evidenziare solo i problemi per scaldare le emozioni serve a poco e illude i cittadini. A Palazzo federale bisogna essere presenti, attivi, credibili, determinati e coscienti che qualsiasi idea o soluzione ha bisogno di una maggioranza: siamo in democrazia, funziona così!”

È con credibilità e argomenti che si raggiungono successi: “l’ho vissuto sulla mia pelle”, prosegue. “Siamo 1 cantone su 26. 10 parlamentari su 246. Non serve a nulla porre solo domande. Proposte concrete e fondate, trovano con il tempo maggioranze. Siamo la terza Svizzera. Ricordiamoci e ricordiamo oltralpe che l’italianità è un valore insindacabile e assoluto per l’esistenza medesima del nostro Paese. Il Ticino deve quindi legittimamente rivendicare pari dignità e opportunità nei confronti della Confederazione e di tutti i Cantoni. Non siamo speciali e secondi a nessuno, ma abbiamo – soprattutto a livello socioeconomico – problemi più acuti rispetto ad altri. Se il Ticino resta chiuso in un angolo, isolato, muto e piagnucolone, non cambierà mai nulla”.

Ma su alcuni temi fondamentali per il Ticino, come le relazioni con l’Italia, occorre fare pressioni sul Governo federale e l’Amministrazione. “È ora che i dossier aperti con l’Italia diventino priorità e che, di fronte a taluni atteggiamenti inaccettabili da parte italiana, si risponda per vie e con toni politici e non solo diplomatici. La priorità è data a Germania e Francia, dimenticando il “fronte sud”. Il Ticino è da troppo tempo escluso dal Consiglio federale e l’odierno stallo è dovuto a mio giudizio in parte anche a questo. Senza Ticino non è Svizzera e oggi a Berna –in vari ambiti –manca il Ticino”.

Basta quindi con gli atteggiamenti remissivi e l’eccesso di zelo, sprona ancora Romano: “Nel contesto attuale serve pragmatismo (Realpolitik) fondato sui valori che hanno fatto grande il nostro Paese: neutralità, federalismo, sussidiarietà, responsabilità, libertà, solidarietà intercantonale e internazionale, così come volontà di stare uniti nel rispetto delle diversità. La Svizzera ha tutto per avanzare concreta e decisa nel contesto internazionale”.

L’esempio perfetto di questa rinnovata esigenza di pragmatismo è l’annosa questione dell’Unione Europea: “Smettiamola di dire “no all’UE”, è qualcosa di evidente, diciamo cosa vogliamo e cerchiamo di realizzarlo!” Dire semplicemente no, aggiunge, “è una affermazione fuori dal tempo, vuota e inutile. Dove si parla di una nostra adesione all’UE? La realtà è un’altra: l’Europa c’è, vive una profonda crisi sociale e istituzionale, ma esiste e con essa abbiamo bisogno di una relazione, qualsiasi nome gli diamo. L’adesione non è un tema né oggi né domani. D’altro canto la Svizzera non è mai stata isolata o isolazionista. Rifiutate queste due posizioni estreme cosa resta? Un sano e costruttivo pragmatismo: la volontà di mantenere tutta la propria sovranità, ma nel contempo di relazionarsi con chi ci sta attorno. Che si chiamino “bilaterali” o “pinco-pallino”, la Svizzera ha bisogno di rapporti istituzionali, economici e sociali con chi la circonda”.

Romano conclude quindi con qualche riflessione sulla grave crisi migratoria. “Siamo tutti scioccati e preoccupati. Per trovare una situazione paragonabile in termini di numero di migranti (60 milioni) bisogna tornare al secondo conflitto mondiale. Non esiste la soluzione per domani. Bisogna lavorare in più ambiti e su differenti livelli”.

Il nostro sistema di asilo, sottolinea, nel complesso funziona. “A chi è realmente nel bisogno e nel pericolo -nel solco della nostra tradizione -sappiamo e sapremo dare risposta. A chi sogna una vita migliore o, peggio, ne approfitta, dovremo rispondere con chiarezza che occorre battersi per risolvere i problemi a livello locale, dando nel frattempo rifugio a chi è particolarmente vulnerabile. È utopico immaginare di accogliere milioni di persone”.

Ma, vista la situazione dei Paesi europei, già colpiti da gravi crisi interne, “il pericolo di gravi crisi, anche di sicurezza, è realtà. Con il movimento migratorio, in maniera silente, si diffonde anche l’Islam radicale e in generale chi non vive nel solco della tradizione culturale europea. Questa è una grande sfida cui la Svizzera non può e non deve sottrarsi. Non sottovalutiamolo, la sicurezza e l’integrazione devono essere le priorità. La multietnicità imposta crea destabilizzazione sociale e instabilità. L’identità locale è per me un elemento fondamentale da preservare e rafforzare! Non è chiusura, ma apertura al confronto nel rispetto della nostra storia e della nostra comunità. Prima che sia troppo tardi, riprendiamo con convinzione i nostri valori cristiani, smettiamola di rifiutare le nostre radici ed evitiamo di diffondere paure esagerate”.

Fabio Regazzi

“Il mio spirito imprenditoriale trae origine da una fiducia di fondo. Una fiducia che in situazioni complesse come quella odierna, indica sempre una possibilità per individuare un approccio alternativo, verso prospettive a prima vista inimmaginabili”. Una premessa che, secondo Regazzi, ben si concilia con la difficile situazione che sta attraversando il PPD ticinese, “soprattutto in vista della fase di analisi e di ripensamento che ci apprestiamo ad affrontare”.

Ma i motivi di fiducia, prosegue, ci sono. Regazzi parte quindi proprio dal partito stesso e dai segnali incoraggianti che arrivano dai candidati delle due liste di Generazione Giovani che segnano la volontà di mettersi in gioco. “Nonostante questi segnali positivi, siamo coscienti che non è un buon momento. Se siamo qui oggi numerosi è perché non siamo disposti a subire la deriva del nostro partito, ma vogliamo reagire e ritrovare lo slancio perduto. Il prossimo 18 ottobre rappresenta una buona occasione per far capire a tutti che il PPD c’è ed è ben presente nel Paese”. L’obbiettivo, sprona, è riconfermare i tre seggi “e lo potremo fare solo serrando le fila. Nessuno si illuda sia cosa fatta: il risultato dipende solo da noi”.

Altro motivo di fiducia per il futuro è il nostro stesso Paese, incalza. “La Svizzera è un modello di successo che tutti ci invidiano e che noi popolar democratici abbiamo contribuito a realizzare e consolidare”. Ma “bisogna costruire consenso e trovare compromessi per realizzare i progetti e a volte avere il coraggio di prendere decisioni di carattere straordinario. In queste ore in cui sta consumando una tragedia umanitaria inaudita, possiamo solo considerare ridicole le dichiarazioni di chi vuole erigere muri e render ermetiche le nostre frontiere. Niente potrà arrestare queste persone, sarebbe anzi egoista da parte nostra chiudere gli occhi davanti a questo dramma internazionale. Siamo un modello di successo in tanti campi, sarebbe egoista e gretto se non lo fossimo anche nell’accoglienza a popoli perseguitati da tanta violenza. Per noi politici la fiducia nel nostro Paese passa questa volta anche dal coraggio di riscattare la nostra storia e saper afferma che “la barca non è piena!”.

Pensando invece al Ticino, non si può esimersi dall’affrontare le condizioni in cui versa. “Il Cantone sta attraversando una crisi di sfiducia. È vero – riflette – sono anni difficili legati alla forte concorrenza sul mercato del lavoro. Ma dobbiamo continuare a credere nei nostri mezzi”. La prima cosa da temere, dunque, “è quella paura ingiustificata che ci impedisce di compiere lo sforzo necessario per trasformare una ritirata in avanzata. I nostri problemi non derivano da alcun fallimento sostanziale”.

Citando Roosvelt, Regazzi ricorda che “la felicità non sta sono nell’avere soldi: sta nella gioia che dà il raggiungere uno scopo, nell’emozione dello sforzo creativo”. Una frase pronunciata di fronte ai cambiamenti che la società americana doveva apprestarsi a compiere dopo la crisi del ’29. Un parallelismo, prosegue, che tiene: dopo il ventennio tra gli anni ’80 e il 2000, “caratterizzato dal miraggio del profitto facile grazie anche al successo della piazza finanziaria luganese, ci siamo ritrovati una economia più fragile e vulnerabile, confrontata con una Lombardia in profonda crisi”.

Da queste difficoltà “è purtroppo germogliata una mentalità piagnucolosa, prerogativa dei perdenti, alla continua ricerca del facile capro espiatorio, dapprima nella “Berna padrona”, poi nell’ “Italia ladrona”, responsabili di tutti i mali che ci affliggono. Leggendo certa stampa domenicale e sentendo alcuni politici sembrerebbe che in Ticino siamo prossimi al collasso. È vero, abbiamo problemi importanti e sfide complesse da affrontare. Ma io vi dico, mettiamo fine all’unica crisi, che è la vera minaccia: la tragedia di non voler lottare per superarla”.

Regazzi sprona quindi a dire basta al progressivo degrado della dialettica politica, “con le sue inevitabili cadute di stile, come rivolgersi alle Autorità federali con toni rabbiosi o canzonatori, presentando una realtà deformata da una sorta di psicosi persecutoria. Abituati oramai al pubblico dileggio fomentato da una mentalità gretta ed egoista, il rapporto di fiducia tra Berna e Bellinzona poteva solo incrinarsi. E così è stato”.

Un livore, prosegue, che ci ha accecati al punto di dimenticare l’apporto fondamentale dell’appartenenza alla Confederazione. “Mi spiace deludere chi è pervaso da sentimenti di astio: Berna non ha abbandonato il Ticino, anzi!”, esclama ricordando, ad esempio, gli investimenti per le grandi infrastrutture.

“Risultati frutto di un rapporto di stima costruito negli anni e fondato sul reciproco rispetto e dialogo. E frutto anche del lavoro nelle commissioni e nei plenum. Perché capita anche che i medesimi che accusano Berna di latitanza, sono gli stessi che nel lavoro parlamentare registrano il tasso di assenteismo più alto”.

I prossimi quattro anni, conclude Regazzi, “saranno ancora difficili per la Svizzera e il Ticino. Potremo affrontarli assieme forti della legittimità che viene conferita dalla nostra appartenenza a un Paese che è ai vertici del successo economico mondiale ed al quale il nostro Partito ha dato negli anni un contributo decisivo. Ma dobbiamo avere chiara la volontà di continuare a lottare e ritrovare coraggio, progettualità e leadership”.

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