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Il Federalista
26.01.24 - 17:390

Denatalità, il crollo delle evidenze

Politica e cultura non se ne curano. Ma l'emergenza è drammatica, epocale. Le riflessioni nella società francese e il commento di Bruno Cereghetti

Contributo della redazione de ilfederalista.ch

La situazione demografica dovrebbe svettare in cima alle preoccupazioni politiche nel nostro Paese. Dovrebbe. In realtà –lo avrete notato- di tutto si occupa la nostra politica, dalla 13ma AVS al caro vita per i dipendenti cantonali, salvo che della natalità in caduta libera e della spada di Damocle che l’invecchiamento costante della popolazione rappresenta per l’intera costruzione del welfare, a livello federale come cantonale.

Ovviamente è troppo facile scaricare l’intera responsabilità del declino demografico sulla politica. A monte, con l’eccezione lodevole di qualche commentatore (si distingue ad esempio, in Ticino, l’economista Ivano Dandrea), la riflessione, la ricerca e il dibattito su questo nodo drammatico della nostra vita sociale latitano gravemente anche nei luoghi della cultura e della comunicazione mediatica.

È verisimile che alla radice di questa allegra sbadataggine che ci fa correre verso il futuro senza accorgerci che le nostre gambe stanno diventando di legno vi sia il timore di guardare in faccia la realtà e chiamare le cause del declino demografico con il loro nome.

Proviamo allora a superare la vertigine che ci assale quando ci accorgiamo di essere sul ciglio di una società per vecchi e affacciamo qualche possibile risposta alla domanda chiave: perché un continuo calo delle nascite?

Mal comune mezzo gaudio, è l’intera Europa a patire il fenomeno della denatalità. Questo ci permette di fare oggi ricorso alla riflessione in corso nella società francese.

“I nostri antenati, negli ultimi secoli, sono stati molto più esposti di noi alla povertà, ai problemi abitativi, alle epidemie e alle guerre. Tuttavia, hanno avuto molti figli. E lo vediamo oggi nei Paesi poveri, anche molto poveri, dove il tasso di natalità è proporzionale alla povertà”.

È un politico francese, David Lisnard, sindaco di Cannes e presidente dell'Associazione dei sindaci di Francia, a porre questa premessa all'analisi della situazione demografica che nel suo Paese, comunque, ha sempre goduto di una certa attenzione da parte della politica. Eppure…

La Francia si trova a un bivio critico della sua storia, dopo aver resistito a lungo alla tendenza osservata altrove in Europa di un tasso di natalità in calo. Dal 2010, anno in cui abbiamo registrato il maggior numero di nascite in quarant’anni, il tasso di fertilità per donna è scivolato inesorabilmente da 2,11 a 1,68 nel 2023. Era ancora a 1,78 nel 2022. Se questa tendenza dovesse continuare, le conseguenze potrebbero essere drammatiche, sia sul piano socio-economico che sul futuro stesso della nostra Nazione.

E i numeri svizzeri del declino demografico? Eccoli: l’indicatore sintetico della fecondità che nel 2009 registrava 1,5 figli per donna, nel 2022 era sceso a 1,39. Quanto al Ticino, nel 2022 il tasso di fertilità era all’1,31, quasi ai livelli dell’Italia (1,24), tra i più bassi d’Europa. Dandrea, nel contributo citato, si era spinto a ipotizzare per il nostro Cantone nel 2023 un dato inferiore all'1,2. Vogliamo affondare la lama fino all’osso? Nel Ticino del 2022 il saldo naturale -differenziale tra nascite e decessi- è stato di -1.102: il peggior risultato dal 1900. 

In Francia è d’uso che i presidenti tuttofare, dal piglio napoleonico quasi autocratico, si mostrino pensosi di fronte al declino demografico. L’ha fatto nei giorni scorsi anche Macron, suggerendo qualche ritocco legislativo. Per David Lisnard è buona cosa, ma è troppo poco. Perché?

Perché il calo delle nascite è il risultato della concomitanza di una crisi esistenziale occidentale, che si potrebbe definire spirituale, e dell’indebolimento della politica familiare e demografica che ha costituito la singolarità positiva della Francia. (…). Un aspetto è la modifica del principio di universalità degli assegni familiari decisa da François Hollande, che costituisce un errore fondamentale. Ha interessato diversi milioni di famiglie, dimezzando tali assegni per le famiglie genitoriali con reddito superiore a 6.000 euro mensili e dividendoli per 4 quando superano gli 8.000 euro mensili. (…) Penalizzanti sono state anche altre misure, come la riduzione del quoziente familiare decisa nel 2013 che ha penalizzato circa 800.000 famiglie della classe media, o la riforma del 2015 del congedo parentale. Imponendo una divisione del congedo parentale tra madre e padre - interferendo così con l'intimità delle decisioni di coppia - la legge ha portato a una drastica riduzione del numero di congedi parentali fruiti dalle madri, senza raggiungere l'obiettivo di un maggiore utilizzo del congedo parentale da parte dei padri (un aumento dell'1,1%).
 
Sul piano culturale, Lisnard accenna anche a una “propensione a denigrare la famiglia” ma si inoltra poi nella ricerca di altri fattori che convergono a suo parere nel determinare il crollo demografico. E accenna a uno “stato d’animo declinista [con riferimento alla cosiddetta "decrescita felice"] e malthusiano". Entriamo nel merito.

Negli ultimi anni è emerso un altro fattore, che considera la crescita della popolazione un pericolo per il pianeta. I sostenitori di questa prospettiva allarmista, intrisa di millenarismo, arrivano al punto di considerare ormai il bambino come una minaccia e non più come un’opportunità per il futuro. La risonanza di un simile discorso sulle generazioni più giovani purtroppo non è trascurabile, soprattutto quando proviene da alcuni scienziati che affermano che per la Francia “un bambino in meno significa 40 tonnellate di CO2 risparmiate”. Il sofisma di questi eco-tiranni (e depressori) è questo: per evitare la morte, sopprimiamo la vita. Verità inarrestabile e assurda.

Dopo aver aggiunto il fattore di un crescente “individualismo”, “che spiega perché una parte della popolazione, in cerca di realizzazione personale, può esitare ad assumersi le responsabilità e gli oneri legati alla genitorialità”, il presidente dei sindaci di Francia annota che, onde “evitare di seguire il percorso di Paesi come l’Italia, la Spagna, il Giappone o la Corea del Sud, duramente colpiti dall’invecchiamento demografico”, una politica famigliare intelligente dovrebbe far leva sul desiderio di avere figli che rimane forte – in media 2,39 figli per coppia secondo le ultime indagini (come rilevato anche nel nostro Paese, si veda qui).

È dunque compito delle autorità pubbliche rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione di questo desiderio di fondare una famiglia. Come?
 
Innanzitutto bisogna partire dal ripristino del quoziente familiare, in toto. Quindi, gli assegni familiari devono essere considerati una politica familiare e non una politica sociale, e quindi sottrarsi a qualsiasi verifica dei mezzi. Tali assegni familiari non vanno infatti considerati come uno strumento di correzione delle disuguaglianze di reddito ma come uno strumento a favore dell’equilibrio intergenerazionale che è parte del patto fondativo del nostro sistema di protezione sociale. Terzo provvedimento, lo sforzo deve concentrarsi esclusivamente sul secondo e terzo figlio. (…) Infine, la conciliazione della vita professionale e familiare deve costituire una politica pubblica prioritaria e trasversale. Questa domanda rimane una sfida importante per molti genitori.

Lisnard rifiuta infine la soluzione apparentemente facile e a portata di mano dell’immigrazione. Con argomenti che riecheggiano dispute a noi famigliari.

Prima di cercare manodopera poco o molto poco qualificata all’estero, sarebbe opportuno formare i nostri giovani, di cui quasi due milioni tra i 18 e i 30 anni non hanno né formazione né diploma, e lottare anche contro l’emigrazione che priva il nostro Paese di risorse e giovani talenti che vanno a lavorare e mettono su famiglia all’estero.
 
“L’uomo occidentale si autodenigra e corre verso l’estinzione”

Abbiamo sottoposto le tesi di Lisnard al nostro collaboratore Bruno Cereghetti, esperto di assicurazioni sociali. Anche per Cereghetti è un’evidenza che non si possa ridurre il problema della denatalità a questioni economiche. Sono i Paesi più ricchi a fare meno figli.

“C’è al fondo una ragione biologica”, ci dice Cereghetti: “L’uomo come tutti gli animali ha un istinto al mantenimento della specie (secondo alcuni studi è un fatto inscritto nella parte più antica del cervello umano), ma il fatto che col tempo in alcuni luoghi della Terra l’umanità si sia emancipata, per così dire, dal problema della sopravvivenza, ha in qualche modo consentito che questo istinto si sublimasse in altre esigenze e aspirazioni. Non è più un problema prioritario”.

 “Per un paradosso, non avendo più l’assillo della sopravvivenza, l’uomo europeo corre verso l’estinzione”. A ciò si aggiunge quel che Cereghetti, reagendo all’espressione “crisi esistenziale dell’Occidente” utilizzata da Lisnard, chiama “un’indubbia propensione all’autodenigrazione da parte dell’uomo occidentale contemporaneo”.

Forse si potrebbe evocare anche un elemento di società, aggiunge: “Oggi ai figli si dedica moltissima attenzione, molto di più rispetto a una volta, si cercano ‘relazioni di qualità’ e dunque c’è la volontà di avere più tempo da dedicare loro. Da ciò deriva forse l’opzione di averne pochi”.

Gli allarmi lanciati negli scorsi decenni “sui forti aumenti della popolazioni umana, che a tal ritmo avrebbe creato degli squilibri di sopportabilità sia a livello locale che planetario, hanno poi portato ad un altro paradosso: quello della denatalità indotta”. Addirittura in alcuni luoghi, come la Cina, “le ricette applicate per rimediare hanno portato a una crisi gravissima nella direzione opposta, che ora si mostra nella sua ampiezza”.
 
“Il nostro primo e secondo pilastro pensionistico non possono durare”

In crisi, secondo Cereghetti, è innanzitutto l’impostazione generale della previdenza per la vecchiaia, fondata sul paradigma che vuole siano i giovani a contribuire per gli anziani. Una piramide demografica rovesciata mette in crisi tutto ciò: “Guardiamoci in faccia, il nostro primo e secondo pilastro pensionistico non possono durare”.

Discorso identico per le spese sanitarie: il rischio è che la definizione di accanimento terapeutico si allarghi, per cui “anche qualora vi sia speranza di vita, e di cosiddetta ‘buona qualità di vita’, non si interviene, poiché superata una determinata soglia d’età le cure diventano troppo costose”.

A queste tentazioni bisogna rispondere andando nella direzione opposta: “Bisogna insistere sul principio di universalità”. Presente per ora nella previdenza per la vecchiaia, tale principio si dovrebbe estendere anche all’aiuto alle famiglie: “In una situazione come quella che viviamo in Ticino, bisognerebbe insistere sull’idea che le due priorità assolute siano riconosciute alle spese per la salute e la vecchiaia da una parte, e a quelle per la famiglia dall’altra”. Un passo culturale. Cereghetti è perentorio: "Tutto il resto dovrebbe passare in secondo piano, e quando si decide come orientare le spese pubbliche bisognerebbe partire da questo criterio. Se c’è da sacrificare qualcosa, eventualmente, dev’essere altro”.

Ecco perché Cereghetti non può che condividere appieno l’opinione di Lisnard e ritiene si debba percorrere il cammino inverso rispetto a quello compiuto dalla Francia negli scorsi anni, tornando a una spesa per le famiglie basata sull’universalità. “Anche perché, finché le prestazioni (certamente molto generose) del Canton Ticino per chi mette al mondo figli sono di tipo sociale, ovvero basate sul reddito, rimarrà sempre la tentazione di ridurre la soglia per potervi accedere”.
“Occorre improntare all’universalità gli aiuti per i figli, un po’ come succede per l’AVS”, conclude Cereghetti (ricordando la battuta di Hans-Peter Tschudi: i ricchi non hanno bisogno dell'AVS, ma l'AVS ha bisogno dei ricchi), “affinché non siano percepite come prestazioni per i poveri, ma come prestazioni per le famiglie. Avrà effetto? Non si sa, però darebbe un segnale sociale: ‘la nostra società sostiene le nascite, tutte’”.

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