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Cronaca
03.09.22 - 17:300

Il figlio di Pablo Escobar: “Ecco come mi sono riconciliato con il mio passato”

Sebastian Marroquìn, in un’intervista rilasciata a TicinoNews.ch, parla del suo percorso di riconciliazione: “Nessuno può essere preparato a guardare negli occhi le vittime del proprio padre per chiedere perdono per i crimini che ha commesso"

La vita di Sebastian Marroquin, alias Juan Pablo Escobar, è una felice contraddizione. Come è ricco di contraddizioni il rapporto con suo padre: da un lato l’amorevole genitore, premurosissimo di affetto e di attenzioni verso la famiglia, dall’altra il feroce criminale, responsabile della morte di migliaia di persone. Due figure che convivono nei ricordi di Sebastian. 

La morte del padre e la fuga

Primogenito di Pablo, che inventò il narcotraffico di cocaina con il cartello di Medellin, dopo la morte del padre, braccato e ucciso dalle forze speciali colombiane e dalla Dea su un tetto della sua città, Sebastian fu costretto a scappare dalla Colombia con la madre e la sorella. Alla famiglia del Patron fu risparmiata la vita a seguito di un accordo con i cartelli vincitori di quella guerra. L’esilio e ciò che Pablo possedeva in cambio della vita. 

Documentari e film per raccontare la sua vita

Dopo un lungo girovagare, Sebastian si è fatto uomo in Argentina, dove è diventato architetto e padre. Dopo anni di silenzio, molti dei quali passati a nascondersi per paura di possibili ritorsioni, è uscito allo scoperto intraprendendo un percorso di riconciliazione con le vittime di suo padre e con la Colombia. La sua opera è stata raccontata nei documentari che lo hanno visto protagonista e nei libri che ha scritto. L’11 settembre sarà a Lugano al Festival Endorfine (www.endorfine.site) dove, intervistato da Marco Bazzi, parlerà della sua storia. Ticinonews.ch ha potuto rivolgergli qualche domanda in anteprima. Una sorta di antipasto di quello che racconterà durante l’incontro luganese. Per chi fosse interessato ad ascoltarlo, è possibile acquistare i biglietti in prevendita cliccando qui.

Lei si riconosce di più nel nome di Sebastian Marroquin o in quello di Juan Pablo Escobar?     

“Non presto molta attenzione ai nomi che uso perché nessun nome può definirmi come essere umano. Solitamente siamo molto legati ai nostri cognomi e sembra che questi possano avere il potere di definire la vita delle persone. Ma grazie a Dio non è il mio caso. È anche molto comune aspettarsi che i figli debbano seguire le orme dei padri. Ma io sapevo bene che per sopravvivere dovevo fare esattamente il contrario. Io rispondo ad entrambi i nomi e credo che la nostra vera identità si possa trovare solo nelle nostre azioni. Siamo quel che facciamo. Il nome è solo un accessorio”.

Il suo percorso di riconciliazione con la storia di suo padre è stato lungo, difficile e doloroso. Può dirci qual è stato il momento più difficile e quello più ricco di soddisfazioni?         

“Nessuno può essere preparato a guardare negli occhi le vittime del proprio padre per chiedere perdono per i crimini che ha commesso. Eppure ho guardato tanti di quegli occhi. Almeno 150 famiglie e purtroppo sono solo all’inizio, perché ce ne sono molte altre là fuori, e ho promesso a me stesso che avrei raggiunto ognuna di loro. Queste persone hanno bisogno di essere “risarcite” in qualche modo. Prima di tutto con la verità e poi con le mie scuse che porto in nome di mio padre. Il momento più difficile è stato parlare con Gonzalo Rojas. Suo papà purtroppo morì nell’attentato terroristico ordinato da mio padre al volo Avianca, dove 107 anime sono state uccise. Piango quasi ogni volta che ripenso a quella conversazione, perché Gonzalo rappresenta quelle 107 anime e tutti i loro familiari. E questo mi strazia il cuore perché non ci sono parole sufficienti per dire a tutti loro quanto sono dispiaciuto. Ma la cosa bella è che tutte le volte che parlo con Gonzalo avvertiamo una sorta di sollievo, perché il perdono non è perdonare qualcosa di specifico, ma è una sorta di guarigione”.

Se un giorno potesse rivedere suo padre cosa gli direbbe?

“Papà, ti voglio bene, mi manchi, ma non amo e non mi manca affatto il bandito che eri”.

Il narcotraffico è lungi dall’essere sconfitto. Secondo la sua esperienza cosa si dovrebbe fare per contrastarlo meglio?

“Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe un intero libro. C’è solo un modo: legalizzare la droga. Abbiamo provato la formula del proibizionismo per decenni e quali sono i risultati? Tutti i giorni ci sono morti, la corruzione dilaga. Ci sono violenza, armi e i criminali sono sempre più potenti. I politici che supportano il proibizionismo, in realtà finiscono con l’essere, dal mio punto di vista, i migliori alleati dei narcotrafficanti. Perché in nome della legislazione attuale finiscono con l’aiutare i cartelli a diventare sempre più grandi e potenti. Questo potere inquina la democrazia. Durante il periodo d’oro di mio padre e del narcotraffico in Colombia, i cartelli detenevano 80’000 ettari di piantagioni di cocaina, oggi ne hanno 220’000. Questo significa semplicemente che il proibizionismo sta aiutando il business della droga a crescere sempre di più. Le politiche proibizioniste fanno in modo che nessun governo si prenda la responsabilità di contrastare il narcotraffico, non sul piano militare ma come una questione di salute pubblica. Secondo me è il momento di dichiarare pace alla droga, educando ogni cittadino su quelli che sono i rischi e i pericoli delle sostanze stupefacenti per la salute. Io non mi sognerei mai di dire che le droghe sono qualcosa di buono, ma sono sicuro che provochino maggiori problemi alla salute dei consumatori a causa del fatto che le autorità non hanno il controllo della situazione. Questo business dovrebbe essere nelle mani dei governi. La guerra alla droga non è diversa da quella che in passato è stata fatta contro gli alcolici e guardate oggi come viene affrontato il problema dell’alcol. Dobbiamo proprio cambiare l’approccio culturale e le prospettive sulla droga. Abbiamo bisogno di dire alla gente che siamo un po’ ingannati. La guerra alla droga è lungi dall’essere risolta : più di un milione di persone sono state uccise a causa del narcotraffico. Vite che potrebbe essere risparmiate se la si smettesse con il proibizionismo” 

Cosa direbbe a un giovane che oggi si esalta guardando Narcos su Netflix?

“Mio padre ci ha mostrato soltanto quello che un uomo non dovrebbe mai essere. È stato dipinto come un eroe e come un uomo di successo da Netflix. Mio padre aveva tutto il denaro del mondo, ma non aveva libertà, non aveva amici, non aveva una vita. Non ha mai goduto della sua fortuna, non ha mai veramente posseduto qualcosa. Tutto l’impero che ha costruito gli si è rivoltato contro e non gli è rimasto niente. Tutto il glamour apparente raccontato nella serie tv, non è mai esistito. Era il più ricco ma viveva come il più povero della Terra. Ecco come vedo mio padre: un uomo che ha gettato via il suo talento, che sarebbe stato sicuramente un vero milionario se avesse scelto di stare dalla giusta parte della storia. Avrebbe potuto essere un brav’uomo, capace di avere successo nella vita. Mio padre è morto a 44 anni. Essere un narcotrafficante può portarti solo in due posti: in galera o al cimitero. Bisogna chiedersi: qual è il vero significato della parola successo? E quando possiamo dire di averne abbastanza?”. 

Cosa significa la parola “pace” nella sua esperienza di vita?

“La pace è un diritto per ogni essere umano. Abbiamo la responsabilità di costruirla e mantenerla. Tutto l’oro del mondo non può comprare la pace. Mio padre aveva una montagna di soldi eppure non sono mai stati sufficienti a comprare un solo minuto di pace per se stesso o per coloro che amava. La pace è la cosa più importante che ci sia nella vita, come si può vivere senza? La pace non è un sogno, è qualcosa di tangibile che abbiamo la necessità di costruire. È l’unica garanzia che abbiamo per sopravvivere. La pace è la sola eredità che voglio lasciare a mio figlio e al mondo. Dalla mia voce e dalle mie mani non ci sarà mai violenza, soltanto pace”.

 

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