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Cronaca
16.01.23 - 13:260

L'ultimo dei Corleonesi

Breve storia e ritratto del boss Matteo Messina Denaro, arrestato questa mattina a Parlemo dopo 30 anni di latitanza

di Andrea Leoni

Giusto ieri, 15 gennaio 2023, la stampa italiana ricordava i 30 anni dall’arresto di Totò Riina. Un blitz, quello che portò al fermo del Capo dei Capi, che da un lato rappresentò una grande vittoria per lo Stato italiano e la fine della Cosa Nostra tirannica e stragista del boss corleonese, ma dall’altra spalancò le porte a ombre inquietanti che si trascinarono nei decenni successivi e tutt’ora permangono. Un fatto in particolare fece deflagrare sospetti e veleni: la mancata perquisizione del covo - una villa all’interno di un residence a Palermo - dove Riina viveva con la famiglia. Quando, dopo settimane, gli inquirenti visitarono l’abitazione, la ritrovarono ripulita e tinteggiata.

Chi aveva la responsabilità di condurre le indagini motivò l’accaduto come un sbaglio, per quanto incredibile, frutto di incomprensioni sulle competenze e di errori di comunicazione. Il covo doveva essere sorvegliato per acchiappare gli altri e poi, per un motivo o per un altro, nessuno lo presidiò. Chi, per contro, non ha mai creduto all’incredibile errore, ha sostenuto che la mancata perquisizione fosse il risultato di un accordo con l’ala “moderata" di Cosa Nostra, incarnata da Bernardo Provenzano,  per tutta la vita compare di Riina, che prevedeva la consegna del boss in cambio dell’abbandono da parte di Cosa Nostra della strategia e, soprattutto, dei documenti che egli costudiva nella sua residenza. Un archivio segreto dove sarebbero state conservate anche le carte sugli accordi indicibili tra Stato e Mafia.

E sarebbero state proprio quelle carte, così si narrava fino a ieri, lo scudo d’impunità che ha permesso a Matteo Messina Denaro una latitanza lunga trent’anni. Perché lui era ritenuto il custode di quei documenti scottanti e di altre verità in grado di far tremare le fondamenta stesse dello Stato. Fino a ieri…perché oggi, 30 anni e un giorno dopo l’arresto del suo padrino, all’ultimo dei Corleonesi sono state messe le manette ai polsi.

Come sono andate davvero le cose, probabilmente, non lo sapremo mai. A meno che Alessio, lo pseudonimo con cui per anni si è firmato nei pizzini, non decida di collaborare, svelando i segreti che Totò Riina e Bernardo Provenzano si sono portati nella tomba. Un’ipotesi improbabile e sulla quale ogni previsione è solo speculazione. Ma forse la tesi dell’archivio, non priva di elementi oggettivi, era anche un modo per trovare una spiegazione a una latitanza scandalosa e che pareva irrisolvibile, nonostante a dar la caccia all’uomo ci avessero provato le migliori risorse investigative del Paese, servizi segreti compresi. Una “scusa”, forse o almeno in parte, per giustificare un fallimento durato tre decenni e in un’era tecnologica che, rispetto al passato, offre agli inquirenti strumenti d’indagine che non dovrebbero consentire a un uomo di nascondersi così a lungo in un territorio relativamente piccolo come la Sicilia.

Per quanto possa essere fitta, fedele e complessa la rete che tutela la sua latitanza, com’è possibile che resti un fantasma? Un boss deve pur mangiare, dare ordini, amministrare il proprio patrimonio e, per comandare, deve vivere nel suo territorio. Come è possibile allora? Non è che è morto o si è trasferito in nord Africa o in Sudamerica? Se lo chiedevano tutti, anche perché l’attuale Cosa Nostra non è certo la super potenza criminale degli anni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, capace di tutelare i propri padrini grazie a infiltrazioni al massimo livello. Nel corso degli anni gli hanno arrestato famigliari, amici, picciotti, prestanome, gli hanno sequestrato patrimoni con numeri troppo lunghi da leggere, eppure la sua cattura è sempre rimasta qualcosa di appena più concreto di un miraggio. Fino a questa mattina.

Un boss deve mangiare, dare ordini, amministrare il proprio patrimonio, ma deve anche curarsi. E proprio la malattia è stata fatale alla latitanza di Matteo Messina Denaro. Un tumore, come quello che costrinse Bernardo Provenzano a farsi operare a Marsiglia e a lasciare preziose tracce di sé, e che ha spinto il suo erede nella clinica privata in pieno centro a Palermo dove è stato arrestato. I dettagli del fermo ancora non si conoscono, ma pare che MMD fosse stato operato un anno fa per un cancro al colon e da allora seguisse in day hospital regolari cicli di cura chemioterapica.

Non si conoscono i dettagli, ma alcuni indizi sull’arresto sono già significativi. Il primo conferma la regola: i boss vivono e vengono arrestati sul proprio territorio. Il secondo: Messina Denaro si muoveva liberamente ed era in cura in una struttura sanitaria d’eccellenza nel pieno centro di Palermo (e il ricordo corre ai figli di Totò Riina, tutti nati e regolarmente registrati all’anagrafe con il proprio cognome, in una clinica del centro città). Terzo indizio: aveva un autista che l’accompagnava. Sono tutti pezzi di un puzzle che indicano una latitanza “classica”, quasi arrogante, il che fa supporre che il boss si sentisse relativamente al sicuro. Chi lo aiutava? Le indagini dovranno dare innanzitutto risposta a questo quesito e c’è da augurarsi che le molliche di pane seguite dagli investigatori per acciuffarlo li abbiano condotti anche alla residenza dove Messina Denaro abitava.

Così uguale e così diverso dai boss con i quali ha insanguinato la Sicilia. Del tutto simile per la ferocia e la spietatezza con i quali ha eseguito e ha partecipato come mandante ai più atroci delitti, a cominciare dalle stragi del ’92. Del tutto differente come profilo personale. Trapanese di Castelvetrano e non palermitano, tanto per cominciare, che è una grossa diversità nel modo di essere mafiososo e nell’incasellarsi nella gerarchia di Cosa Nostra. Alleato e poi tra i leader della cosca corleonese per volontà del padre Francesco, che si schierò con Riina durante la guerra di mafia degli anni ’80 e gli affidò il figlio  per addestrarlo alla malavita. Non un pecoraio, non un contadino, ma piuttosto un dandy, amante del lusso e delle donne: auto, vestiti, orologi, amanti. Comportamenti assai distanti dalla retorica religiosa e di rettitudine morale -casa, chiesa e famiglia - strumentalizzata dai vecchi boss come codice di condotta per gli uomini d’onore. Un fiuto imprenditoriale moderno che lo ha portato ad investire ad esempio nelle energie rinnovabili. Un uomo di letture colte e interessato alla politica, come si evince dalla sua corrispondenza rintracciata negli anni. Una figlia che pare non abbia più rivisto dal momento della latitanza.
Insomma, nulla a che vedere con gli abiti, i comportamenti e i linguaggi rozzi e sgrammaticati di Riina e Provenzano.        

“Sono Matteo Messina Denaro”, ha detto senza indugio ai carabinieri che lo arrestavano quando gli hanno chiesto di identificarsi. Non sappiamo quanto gli resti da vivere ma siamo certi che avrebbe desiderato morire come suo padre Ciccio: in latitanza, con la salma fatta ritrovare ben composta nelle campagne e un necrologio sul giornale per annunciare il decesso.

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