di Claudio Mésoniat*
“Germania, l’onda neonazi” era il titolo di apertura di “Repubblica” lunedì. Certo, commenta un amico, “per quelli nati colti e con l’aperitivo in mano, il voto tedesco di domenica è stato uno choc”. Non che non ci sia da preoccuparsi, ma con più realismo la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” titolava: “Per loro l’AfD è un partito del tutto normale”, presentando un servizio da Niederbösa, villaggio della Turingia dove il 60% degli abitanti ha votato per il partito di Björn Höcke, il leader locale di AfD.
E siccome non solo la formazione di ultradestra Alternative für Deutschland ma anche il neonato partito BSW, Bündnis Sahra Wagenknecht – Vernunft und Gerechtigkeit (Alleanza Sahra Wagenknecht – Ragione e Giustizia), per molti aspetti speculare ad AfD ma posizionato a sinistra, ha ottenuto risultati straordinari sia in Turingia che in Sassonia -l’altro Land della Germana orientale in cui si è votato domenica-, occorre mettere a fuoco alcuni dati di una realtà che da qualche anno bussava alla porta e ora incomincia a sfondarla.
A gambe all’aria sono andati i partiti della coalizione che governa il Paese, dai Socialdemocratici di uno spaesato Olaf Scholz ai Verdi e ai Liberali; a salvarsi in qualche modo è il centro -e baricentro- del panorama politico tedesco terremotato, l'Unione Cristiano-Democratica (CDU), oggi di Merz e per quasi due decadi di Angela Merkel.
Ma è proprio il grande disegno della signora Merkel che si sta sfaldando pezzo a pezzo, sotto i colpi degli sconvolgimenti geopolitici e dei rovesci economici di un mondo che non segue i piani architettati a inizio secolo dalla proverbiale locomotiva del Vecchio Continente, a salvezza del proprio benessere e, in qualche modo, di quello dell’intera Europa (Svizzera compresa, la nostra economia essendo notoriamente legata a filo doppio con quella tedesca).
Il rilancio della potenza economica tedesca concepito dalla Merkel faceva leva –semplificando- su tre fattori che si inserivano nelle coordinate del nuovo assetto uscito dalla fine della Guerra Fredda e del mondo bipolare.
1) La globalizzazione spalancava nuovi mercati -e su tutti quello cinese- al gioiello della manifattura tedesca, l’automotive, il ramo dell’industria che progetta, costruisce e distribuisce veicoli a motore (senza dimenticare l’immenso sbocco per i prodotti dell’agricoltura, settore nel quale la Germania pure primeggia in Europa). Non si trattava soltanto -come vedremo nella seconda scheda più sotto- di esportazione ma anche di delocalizzazione di pezzi dell’industria tedesca in Cina.
2) Niente fabbriche senza energia: quale miglior offerente, nel mondo degli affari-senza-frontiere, dell’orso russo, pronto a lasciar scorrere fiumi di gas e petrolio nelle pipeline di una rinnovata amicizia russo-tedesca? E quale miglior messo, per cementarla, dell’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, tuffatosi nel forziere miliardario di Gazprom sotto l’occhio compiaciuto della signora Merkel e di mister Putin?
3) La manodopera. Un problema, tanto per ragioni demografiche quanto per l’esigenza di mantenere prezzi, e quindi salari, concorrenziali in un mercato globale. Una possibile soluzione: accogliere lavoratori immigrati.
Occorre però intendersi: non si costruisce qui un’equazione per dedurre che Angela Merkel avrebbe importato manodopera, nella fattispecie siriana, per puri e semplici calcoli economici.
La componente umanitaria giocò sicuramente un ruolo importante, a onore di una sensibilità umana in forza della quale la cancelliera seppe assumersi la responsabilità di un’operazione –quella del milione di rifugiati accolti in tempi brevissimi- non priva di incognite e di rischi. Ma il fattore economico ebbe una rilevanza indubbia, come documentano i piani di inserimento di immigrati siriani nelle fabbriche Volkswagen.
È intuitivo cogliere come il grande disegno della Merkel e dei suoi alleati di Governo, un disegno dettato dal genio tedesco ma al contempo elaborato dentro un orizzonte economistico, abbia incontrato rovesci geopolitici imprevedibili ma anche sviluppi prevedibili dovuti a una logica strettamente economica. Vediamoli schematicamente.
1) La scoperta, cammin facendo, di avere a che fare con un giocatore capace di approfittare del grande gioco della globalizzazione rispettandone le regole solo fintanto che esse giovassero al proprio sviluppo, per poi rovesciarle adottando forme di palese protezionismo.
Stiamo parlando del doppio gioco messo in atto dai dirigenti cinesi. Si aggiunga che frattanto si scopre che gran parte (oltre i ¾) dei veicoli venduti con marchio tedesco vengono prodotti all’estero. D’altra parte, a complicare i piani nel campo del mercato dell’auto sono intervenuti fattori inattesi relativi alla sopravvalutazione dell’attrattiva dei modelli elettrici.
A sigillare sinteticamente il tracollo incombente è giunta due giorni fa, dai piani alti di Wolfsburg, la notizia che Volkswagen potrebbe chiudere una sua fabbrica in Germania.
2) È sotto gli occhi di tutti e non richiede commenti il fatto che la guerra di Putin in Ucraina abbia interrotto inesorabilmente il decisivo flusso di idrocarburi verso la Germania e l’intera Europa.
3) Come sotto gli occhi di tutti sono i problemi suscitati dalla massiccia immigrazione, problemi occupazionali e di sicurezza in parte reali ma anche dilatati da timori indotti e cavalcati dai partiti che sulla paura del diverso hanno costruito la loro fortuna, fino a generare disinformazione e odio.
In questo caso si è rivelata superficiale, da parte delle autorità politiche, la valutazione e la presa a carico della componente culturale, fin dentro alla sua radice religiosa (e, purtroppo, allo sfruttamento fanatico di essa).
La lezione che se ne può trarre è che i flussi migratori, che si riveleranno vieppiù inevitabili in tutta Europa, non possono essere ridotti alla loro componente economica: accogliere immigrati, rifugiati o lavoratori, significa accogliere persone e quindi predisporsi a conoscerne profondamente e valorizzare la cultura, in vista di una loro reale integrazione sociale.