di Marco BazziDue donne uccise a distanza di pochi giorni. La prima ad Ascona, un paio di settimane fa, dove un 54enne macedone ha freddato sua moglie, di 38 anni, con un colpo di pistola. La seconda ieri sera a Bellinzona: una 24enne eritrea, che stando alle prime ricostruzioni degli inquirenti, è stata spinta dal convivente, un suo connazionale di 35 anni, fino a precipitare dal quinto piano di un condominio in via San Gottardo.
Non sappiamo i motivi, di quello che il procuratore pubblico Moreno Capella ha qualificato come omicidio volontario. Sappiamo solo, sulla base delle testimonianze, che tra i due c’erano già stati violenti litigi.
Sappiamo invece qualcosa di più sul delitto di Ascona, grazie alle parole della figlia della vittima: “Sapevo che un giorno avrebbe fatto qualcosa… O stai con me o ti ammazzo, le diceva”. L’uomo, tre mesi fa, avrebbe minacciato con un coltello moglie, le sue due figlie e un familiare amico della coppia: “Accusava mia madre di avere un amante - ha raccontato la ragazza -. Dopo questo fatto ci siamo rivolti alla polizia”.
E ha aggiunto: “Questa intervista non è per me, io una madre non l’ho più, ma per gli altri. Spero che la legge cambierà: non voglio che qualcuno perda i propri cari perché nessuno è stato capace di proteggere chi è vittima di minacce”.
Stiamo parlando di uxoricidio, o meglio di femminicidio. E in questa serie di tragici fatti, che deve preoccupare l’intera società, si inserisce anche il delitto di Stabio, dove il 14 ottobre scorso Michele Egli ha ucciso la cognata, Nadia Arcudi, anche se le indagini hanno accertato che tra i due non c’era alcuna relazione sentimentale.
In questo caso il movente era economico. Ma ancora una volta è stata una donna a soccombere alla violenza di un uomo. E la donna, in questa nostra società che si ritiene civile e avanzata, fondata su valori condivisi, regolamentata da una burocrazia asfissiante, si scopre fragile. E impotente. Anello debole di una catena che pareva saldissima, dopo tanti anni di emancipazione, di discorsi e di campagne sulla parità tra i sessi…
Dobbiamo constatare, purtroppo, che l’ancestrale cultura maschilista basata su rapporti di forza in cui la donna era considerata il ‘sesso debole’ è dura a morire. E forse sta riemergendo sotto traccia proprio in quanto l’emancipazione femminile ha messo in discussione la figura del ‘maschio dominante’, che ora reagisce alla sua perdita di potere.
Forse, prima che accadessero gli ultimi drammatici episodi, parlare di femminicidio i Ticino faceva sorridere. Come spesso avviene, pensiamo di essere al riparo da certi fenomeni, in questa piccola isola di apparente felicità. Ma non è così.
Anche se poi potremmo dire: ‘Eh, già, però uno era macedone e l’altro eritreo…'. Li ho già visti, i commenti sui social alla tragedia di Bellinzona: “Ne abbiamo importate di belle risorse”, “Allontanarle dal Paese”, “Fuori subito”…
Comunque, anche senza scadere nelle bieca xenofobia, potremmo puntare il dito contro l’imprinting culturale, aprendo un infinito capitolo sul ruolo della donna in questa o quell’altra società. Una vicina di casa della coppia eritrea ha raccontato a LaRegione che recentemente, dopo aver assistito a una lite tra i due, ha chiesto all'uomo: “Ma perché volevi buttarla dal terrazzo? Mi ha risposto: signora, questa è la nostra cultura”. C'è da chiedersi perchè nessuno sia intervenuto di fronte a questi segnali... E questa è una parte del problema.
Ma sarebbe un clamoroso errore liquidarlo così. Perché i delitti, e questa è l'altra parte del problema, sono solo la punta di un iceberg sommerso fatto di violenze, fisiche, psicologiche e verbali, di pressioni, di minacce, di intimidazioni...
Sono anche l’estrema conseguenza di quel fenomeno sommerso, ma molto più diffuso di quanto pensiamo, che si chiama ‘stalking’. Dal termine inglese “stalk”, che significa “avanzare furtivamente”, ma che indica anche un cacciatore in agguato, e che riassume quel vasto universo di molestie ripetute nei confronti di qualcuno, quasi sempre donne, fatto di pedinamenti, telefonate, sms, appostamenti. Molestie che generano ansia e paura nelle vittime. E non pensiamo che questi casi riguardino soltanto individui ottusi e ignoranti, che sono cresciuti in società o culture nelle quali la donna è succube per definizione. Non è affatto così, purtroppo.
A volte lo stalker è un individuo che tenta di riconquistare un’amata perduta. Altre volte è un uomo che si sente trascurato o respinto… La domanda di fondo è: fino a che punto gli atti di stalking possono sfociare in violenza? Ma è una domanda retorica, perché non ha risposta nel presente ma solo, eventualmente, nel futuro. Però dobbiamo porcela, in particolare noi uomini. Dobbiamo parlarne. E le vittime devono avere il coraggio di denunciare le persecuzioni appena varcano il confine della ragione. Perché oltre il confine della ragione si nasconde il nostro lato oscuro, le cui profondità sono insondabili.
“Gli uomini picchiano le donne, spesso le pestano a sangue, alle volte le uccidono – scriveva l’anno scorso su L’Internazionale il giornalista Christian Raimo, proponendo un articolato servizio sul femminicidio -. Ogni tanto c’è un caso che sembra più disumano e per questo più esemplare: uno che tenta di bruciare viva la fidanzata che l’ha lasciato, un altro che ammazza insieme alla compagna i figli piccoli. A ondate sui giornali si riparla di femminicidio, o di allarme femminicidio; per il resto del tempo il conto delle morti continua regolare: negli ultimi mesi un tizio a Modena ha strangolato la sua ex e poi ha nascosto il cadavere nel frigorifero in cantina, a Novara un altro ha accoltellato a morte la moglie in strada, a Pavia un infermiere ha sparato alla moglie e alla figlia dodicenne. Quasi sempre gli uomini non accettavano la fine della relazione”.
Ma questi sono solo gli episodi che fanno cronaca. Il mondo della sopraffazione è sommerso, e va, appunto, dalle botte allo stalking. Gli esperti dicono che la recidiva degli autori di violenza è straordinariamente alta: più di otto uomini su dieci rischiano di tornare a commettere gli stessi reati, se non interviene nel mezzo qualcosa o qualcuno. Ovvero se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini maltrattanti.
Insomma può essere utile fino a un certo punto proteggere donne e bambini dalle violenze dei maschi, se il maschio non fa nulla per affrontare il suo problema.
Certo, non esiste la protezione assoluta: se uno vuole uccidere, uccide. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come molti altri magistrati, sono stati ammazzati dal Clan dei Corleonesi nonostante le scorte… E non è che si può mettere in galera a vita chi minaccia o esercita violenza su una donna. Citando un esperto, Raimo scriveva che “il fenomeno più banale è quello della molteplice rimozione della responsabilità. Si passa da ‘io non sono violento, ho avuto un comportamento violento in quell’occasione, in quella situazione’ alle dichiarazioni di assassini o stupratori che messi a confronto con altri uomini violenti dichiarano: ‘Io che c’entro con questi, io quelli che violentano le donne li ammazzerei’. Oltre ovviamente alla costante colpevolizzazione della donna: È stata lei. Lei mi ha fatto diventare così, lei mi ha ridotto in questo stato”.
Ecco, è su queste cose che dobbiamo riflettere. Qui non basta più un programma di protezione per le donne vittima di maltrattamenti. Qui ci vuole, senza innescare una caccia alle streghe, un serio programma di riabilitazione per gli autori di violenza o per coloro che vengono segnalati dalle vittime. Non è possibile che un cittadino finisca davanti al medico del traffico - com'è accaduto a Zurigo - per una segnalazione anonima, che lo accusava di essere un consumatore di stupefacenti e quindi un potenziale conducente pericoloso, mentre chi maltratta una donna sia sanzionato con un semplice divieto di avvicinarsi alla sua vittima. Un divieto che nessuno riuscirà mai a far rispettare.