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Politica e Potere
21.10.19 - 15:080
Aggiornamento: 22.10.19 - 10:28

Lega: i cinque motivi all'origine della crisi del Movimento

Analisi sullo stato di salute del Movimento all'indomani della sonora sconfitta alle elezioni federali

di Andrea Leoni

L’amarezza è una pessima consigliera quando forgia a caldo le parole di una sconfitta. E diventa cattiva quando sulla lingua ferita, oltre all’amaro, si mescola la supponenza. È ciò che trasforma un vinto, in un cattivo perdente.

Battista Ghiggia se l’è presa con tutti ieri sera, meno con l’unica persona che avrebbe dovuto indicare per primo: se stesso. Quando da candidato del partito di maggioranza relativa in Governo, si arriva sesti nella corsa per il Consiglio degli Stati;  quando cioè si è sconfitti da tutti - ma proprio tutti - i candidati che hanno rappresentanza di partito nel Parlamento cantonale, c’è solo da fare mea culpa, omaggiare i vincitori ed abbandonare il palcoscenico in silenzio, con dignità.

Ghiggia si è invece scagliato contro Boris Bignasca, accusandolo addirittura di tradimento (confermando in questo modo la centralità della sua figura e attribuendogli la capacità di spostare 10’000 voti…e chi è, Mandrake?). Ma ciò che è peggio, si è fatto interprete del pensiero del Nano, dicendo che se fosse stato in vita avrebbe preso a calci nel sedere il figlio. L’apoteosi della chiaroveggenza. 

A differenza di Ghiggia, pur avendolo conosciuto a fondo, non so dire cosa avrebbe detto o fatto ieri Giuliano Bignasca se fosse stato in vita. Non m’iscrivo al folto club degli stregoni nell’esercizio pretestuoso di avvalorare tesi, poggiandosi sulle profezie del pensiero del defunto fondatore. Ma ciò che so per certo è che il Nano detestava due peccati più degli altri: l’arroganza e l’avidità, in tutte le loro molteplici forme. E che dunque il primo sedere ad essere preso a pedate, avrebbe rischiato di essere proprio quello di Ghiggia.

Ma lasciamo perdere la vicenda dell’avvocato luganese, a cui va comunque concesso il beneficio dello sfogo a caldo. Parliamo di Lega e della crisi che sta attraversando. Una crisi le cui motivazioni si possono ricercare in cinque punti chiave.

Lo stato d'animo soffocato dal potere

Uno. All’interno della Lega si è creato un grumo di potere che pensa più agli affari che alla politica, alla rendita di posizione più che alla gente, alle nomine più che alle idee. E ciò sta divorando dalle viscere - pardon, dalle busecche - lo spirito del Movimento. Quello stato d’animo che sapeva prima intercettare e poi convogliare pezzi trasversali di popolazione su un ampio spettro di temi e di battaglie. È l’essenza dell’approccio movimentista evocato giustamente ancora ieri sera da Lorenzo Quadri. Ma di quello stato d’animo sembra rimasto solo lo spettro, soffocato, quasi strangolato, da una gestione del potere che non ha nulla, ma proprio nulla, da invidiare a quella che per decenni è stata rinfacciata ai partiti storici.

La sconfitta di aprile e la mancata discontinuità

Due. Dopo la sconfitta alle cantonali di aprile, con un guizzo alla Nano, il Mattino aveva pubblicato in prima pagina una bandiera leghista incerottata. In quel fotomontaggio, sincero ed autoironico, c’era un sussulto di spirito leghista. Ma è rimasto lettera morta. Non c’è stato alcun segnale di discontinuità. Al contrario: si è proseguito verso il muro come se nulla fudesse. A cominciare dalla scelta del capogruppo in Gran Consiglio, dove è stato designato per un anno - altro segno di confusione e precarietà - il decano della frazione leghista con vent’anni di Parlamento sulle spalle: Michele Foletti. Non è una questione personale: Foletti è un politico stimato da tutti e di grandi capacità. Ma se devi svoltare, non puoi affidarti al passato. E se davvero il gruppo non era in grado di scegliere tra lui e Boris Bignasca, come è avvenuto, bisognava trovare la forza d’imporsi una terza via, nel segno del rinnovamento. Questo errore, oltre a cristallizzare la crisi leghista, ha accentuato le spaccature all’interno del gruppo parlamentare. L’ultima plastica dimostrazione è stata la nomina di Paolo Sanvido nel CdA dell’Ente ospedaliero cantonale. Un nome portato avanti acriticamente dai vertici del Movimento e che ha prodotto un risultato umiliante per la Lega in Gran Consiglio.

L'appiattimento a destra

Un altro problema - e siamo al terzo punto - riguarda l’appiattimento sulla destra del Movimento. La Lega sta diventando la brutta copia dell’UDC, né più e né meno. E il sospetto è che questa metamorfosi non sia del tutto casuale, ma che anzi ci sia chi sottotraccia lavori proprio per raggiungere questo scopo. Ci sono ambiguità che vanno affrontate. La prima è il doppio ruolo di Norman Gobbi, mezzo leghista e mezzo UDC. Il ministro sarebbe stato il candidato ideale ad assumere la leadership per guidare il Movimento in questa terza fase della sua vita, ma il doppio cappello partitico rende impossibile oggi questa ipotesi. Perché non si può giocare per due squadre contemporaneamente. A meno che non si pensi che il destino di Lega e UDC sia lo stesso, che non vi siano più differenze tra il primo partito svizzero e il Movimento. È davvero così?

La sindrome di Bruxelles

Il quarto punto riguarda i temi e la così detta sindrome di Bruxelles di cui avevamo scritto nelle scorse settimane (clicca qui). Non si può condensare tutta la propria azione politica nella guerra all’Unione Europea, nella retorica anti-italiana, nel “dagli al frontaliere”. Ci sono molti altri temi che stanno a cuore a quel potenziale elettorato leghista che non rientra nello zoccolo duro. A cominciare da tutti i problemi legati al ceto medio. Le casse malati, la fiscalità, la burocrazia, l’affanno dei piccoli e medi imprenditori, le libertà individuali. La Lega è diventato un Movimento statalista, ma le sue radici sono sociali e liberali. La Lega lanciava iniziative per sgravi fiscali, per la tredicesima AVS, per risparmiare 150 milioni nell’amministrazione pubblica….oggi è vittima di un riflesso pavloviano, per il quale ad ogni problema risponde con l’acronimo UE. Il fatto che oggi ci siano ticinesi che vanno a vivere in Italia perché non ce la fanno più, è l’emblema del fallimento. Infine, vale sempre un vecchio detto: si può governare contro i propri elettori, ma fino a un certo punto. Il compromesso imposto dalla presenza in un Esecutivo, non deve superare una certa soglia del dolore. E non è vero che non si può fare altrimenti: la sinistra e l’UDC, a livello nazionale, sono maestri nel tenere un piede in Governo e un piede all’opposizione. 

Una nuova organizzazione

Cinque: la nuova organizzazione. Marco Borradori, con grande lucidità, ha rilanciato ieri il tema. Il Movimento deve darsi con urgenza una nuova impostazione, che abbia un leader di riferimento. Ora, la leadership è una di quelle poche cose che non s’imparano: o ce l’hai o non ce l’hai. E se ce l’hai ti viene naturalmente riconosciuta. I primi a farlo sono gli elettori e da qui si può fare una prima scrematura. In secondo luogo bisogna ripartire dai giovani. C’è una generazione di ragazzi e ragazze, tra i 30 e i 40, che hanno il diritto-dovere di provarci. Forse non sono pronti ma vista la situazione occorre rischiare dandogli responsabilità. Ai “vecchi” - del ’91 sono rimasti solo Borradori e Foletti - il compito di accompagnarli, sostenerli e proteggerli.

 

 

 

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