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Cronaca
22.03.21 - 03:000
Aggiornamento: 23.03.21 - 09:16

Un sabato alla Foce

Cronaca e riflessioni dall'assemblea pomeridiana del Molino agli scontri serali di altri giovani con la polizia

di Andrea Leoni

Sabato pomeriggio sono andato alla Foce di Lugano ad assistere all’assemblea pubblica convocata dal Centro sociale il Molino. Mentre attraversavo il Parco Ciani bagnato dal sole, con l’aria frizzantina e il vento gelido che schioccava pizzicotti alle guance, mi sono chiesto in quale veste mi stessi recando all’appuntamento: come un giornalista, come un ex autogestito o come un cittadino? Probabilmente tutte e tre insieme, perché questo sono: un giornalista, un ex autogestito e un cittadino.

A muovermi è stata soprattutto la curiosità di capire, attraverso l’ascolto, cosa ci fosse nella pancia di un’esperienza che non frequento più da vent’anni e che quindi non posso conoscere. Quali idee, quali sentimenti, quali emozioni animano l’autogestione nell’anno di grazia 2021 a Lugano. Quali parole la raccontano nella voce dei più vecchi e soprattutto dei più giovani. 

Il problema ha preso forma

Me ne sono andato dopo quasi due ore, rafforzato in un paio di convincimenti. Il primo è che l’autogestione luganese è un’idea politica e culturale che va salvaguardata e che merita di proseguire il suo cammino. Il secondo è che la decisione del Municipio di disdire la convenzione con i molinari, sia stata una scelta traumatica ma utile per smuovere uno stallo incancrenito il cui tratto distintivo è (era?) l’incomunicabilità. L’auspicio è che possa finalmente innescarsi una dinamica positiva tra le parti. E oggi sembra un’ipotesi più plausibile rispetto a una settimana fa.

È come se, attraverso lo strappo degli ultimi giorni, il problema avesse preso corpo e sostanza, costringendo municipali e autogestiti a fare i conti con il principio di realtà e a porsi concretamente domande che finora erano dissolte nell’aria come un’eco impercettibile, silenziate dai reciproci attestati di condanna. La Città è pronta a riconoscere davvero l’autogestione e a trovarle una sede definitiva? È ora di sedersi al tavolo e dialogare seriamente con le autorità per trovare una soluzione? Quanto conta l’identità e quanto lo spazio dove la si esercita? Che cos’è l’autogestione oggi? Come è mutata questa esperienza nel corso di due decenni?

L'assemblea: tra identità, temi e travaglio

L’adunata prende avvio poco dopo le 14.00. Alle spalle del ristorante della Foce vengono piazzate delle panchine a formare l’agorà dove tenere l’assemblea, un bacchetto con materiale informativo e qualche bibita, un piccola cassa e un microfono, poggiato per terra. Sulle panche si accomodano gli autogestiti, subito dietro, in piedi, ci sono gli altri e poi i simpatizzanti, i giornalisti e i curiosi, assiepati sin sul muro che fa da argine al Cassarate. In tutto tra le 150 e le 200 persone, dai giovanissimi agli anziani. Le misure anti-Covid sono rispettate nella media ticinese. Non c’è neanche un poliziotto, neppure ad osservare a distanza. E alla fine nessuno potrà dire che ce ne sarebbe stato bisogno.

L’assemblea, viene precisato in entrata, non prenderà alcuna decisione sulla risposta da dare alla disdetta municipale. Quello che andrà in scena sarà “solo” un confronto.

Si comincia dagli aspetti identitari, dall’autogestione che non può avere una definizione se non l’obbiettivo di tendere sempre alla libertà. Di conseguenza non può essere né buona né cattiva ed è per natura in antitesi all’autorità costituita. Nella sua natura vi è anche il cromosoma della resistenza, verso una società “che ci vuole schiavi e consumatori”. Inevitabile, quindi, il conflitto con il potere.

I toni sono pacati, nonostante la fase incandescente e la più grave crisi che abbia investito il centro sociale da quando ha trovato collocazione nei locali dell’ex Macello. C’è molto più spazio per la riflessione che per gli slogan, per l’analisi piuttosto che per gli epiteti, per l’introspezione anziché per la polemica. Le parole sono tonanti, passionali, rivendicative, poetiche, sgangherate, guerriere, inconcludenti, ingenue, emozionate. Ci si interroga sul razzismo, sugli spazi cittadini e sulle speculazioni edilizie, sul modello sociale e culturale di Lugano, sui progetti e gli investimenti messi in campo dalla Città, sulle ingiustizie. E sulle assenze: un dormitorio, una lavanderia pubblica, luoghi per una cultura alternativa dove un concerto o una cena costano 5 franchi. Sulla legalità, sull’illegalità, sui limiti e le regole, sulle altre esperienze sparse per la svizzera, sulle differenze e sui muri imbrattati: è più incivile il titolo “Rom Raus o altri pubblicati settimanalmente dal Mattino” o una scritta di ribellione “su un triste, grigio, muro di cemento armato”?

Si percepisce un grande travaglio politico ed emotivo nella discussione. Ed è un tormento che fa onore a chi ha deciso di metterlo in piazza.  Per certi versi si tratta di una gestazione sofferta, non poi così dissimile da quella che ha vissuto il Municipio nel corso dell’ultima settimana, prima di partorire la fatidica discussione.

E ora che facciamo?

E poi, d’improvviso, si arriva al dunque. Qualcuno della vecchia guardia fa le domande che come un elefante nella stanza, attendevano solo di essere indicate. Che facciamo ora? Siamo pronti ad entrare in trattativa oppure no? Quanto siamo disposti a concedere? Dai vecchi, seppur con diverse sfumature ed asterischi, l’invito è chiaro: sediamoci al tavolo e confrontiamoci senza timore, perché l’autogestione ha bisogno di un luogo, e se anche dovesse essere eventualmente un altro luogo, non vale la pena buttar via tutto per arroccarsi in un vicolo cieco. Non è firmando un pezzo di carta, o traslocando, che si perde l’identità.

Ecco che dialogo, autogestione e identità diventano le parole chiave, ripetute, ruminate, cesellate dall’assemblea. Chi l’avrebbe detto prima di questo sabato pomeriggio. Non mancano i distinguo e le voci critiche: come si può dialogare con chi ci ricatta costantemente con lo sfratto? Non vogliamo un’autogestione istituzionalizzata o “innocua” come quella che piacerebbe a Borradori; se dialogare significa solo mettere più regole, allora no.

C’è spazio anche per l’autocritica. Un ragazzo simpatizzante ma non organico dice di sentirsi a disagio quando il centro sociale, nei suoi comunicati, non prende chiaramente le distanze da episodi come quello della testata alla giornalista della Regione. Si ragiona sull’episodio e anche su quanto accaduto in stazione l’8 marzo, tra critica, benaltrismo e “correzioni” (i“sassi e bastoni” diventano tramonti di resistenza). Ci si chiede se un gruppo debba sentirsi responsabile per le azioni sconsiderate di un singolo, tanto da doversi dissociare collettivamente. Ci si interroga sul doppiopesismo dei media: grande rilievo per gli atti violenti contestuali alle iniziativa del Molino, quasi indifferenza per altri episodi, ad esempio il fatto che alcuni migranti siano costretti a vivere in un bunker.

C’è chi butta là l’idea delle porte aperte, per smontare il pregiudizio negativo che accompagna l’autogestione e far conoscere a un pubblico più ampio le iniziative che si svolgono all’ex Macello, siano essi dei corsi o un microfono per recitare delle poesie. La capacità di saper includere è un tema chiave per il futuro dell'autogestione, affrontato con lucidità da John Robbiani, in un fondo pubblicato sabato sul Corriere del Ticino.

I politici dove sono?

A un certo punto mi guardo intorno: ma i politici dove sono? Non quelli di destra, la cui presenza sarebbe stata provocatoria, non quelli di sinistra che già sostengono il centro sociale (eppure anche tra questi spiccano le assenze…). Ma dove sono gli altri? Parlo dei pontieri, dei dubbiosi, degli incerti, dei critici. Se è vero come è vero che il tema dell’ex Macello ha segnato così profondamente l’agenda politica della Città, ci si poteva attendere una presenza da chi si candida ad occuparsi del problema fra poche settimane. Invece nulla. E credo che in molti sulla curiosità sia prevalsa una certa vigliaccheria elettorale. Il timore di perdere qualche voto per essere stati fotografati ad ascoltare i molinari. Che ipocrisia…

Magari qualcuno temeva di finire in mezzo a un branco di facinorosi o di beccarsi qualche insulto. Invece, se fossero venuti, avrebbero assistito a qualcosa di davvero stravagante per l’epoca nella quale viviamo (e non ci riferiamo alla pandemia): un gruppo di persone che, in un sabato pomeriggio d’inizio primavera, si raduna sulle soglie del lago per discutere di politica, di cultura, di società e di altre faccende fondamentali. Quasi un’eresia se rapportata ad altri assembramenti, e ad altre discussioni, sull’altro lato del Cassarate, con gli occhi incollati al telefonino o sulla borsetta all’ultimo grido.

Il teppismo del sabato sera

Me ne sono andato dall’assemblea con i pensieri affollati da questo sacrilegio e la sera, scorrendo i social sul telefonino, ho appreso che in quello stesso luogo si erano verificati scontri pesanti con la polizia. I protagonisti saranno mica gli stessi che avevo lasciato al pomeriggio, mi sono chiesto. No, non erano loro e guardando i video che narravano gli eventi mi sono domandato cosa sarebbe successo se a commettere quelle violenze da hooligans  fossero stati i molinari.

Un video su tutti mi ha colpito. Quello in cui gli agenti della polizia indietreggiano, impauriti, letteralmente scacciati dall’impeto degli esagitati e dal lancio di oggetti. L’istituzione pubblica sopraffatta dai violenti (quante volte l’abbiamo sentito ripetere negli scorsi giorni). I fotogrammi sembrano girati in un quartiere napoletano,o in un barrio del Venezuela, o in una favela brasiliana, zone franche dove le forze dell’ordine rinunciano ad entrare. Anche Lugangeles ha le sue periferie, perfino in centro città.


Mi vengono in mente le immagini della stazione di Lugano e mi sfuggono le proporzioni. Una sessantina di manifestanti contro centinaia e centinaia di giovani alla Foce. Un nutrito contingente di agenti in anti sommossa l’8 marzo e un gruppuscolo di poliziotti senza neppure uno scudo e un casco sabato sera. La stessa Città e la stessa polizia. Senza voler giustificare le violenze degli uni e degli altri, la differenza è pacchiana e qualcosa non torna.

 
Come qualcosa non torna nei giudizi post scontri. Per gli atti di teppismo avvenuti sabato sera alla Foce c’è chi invoca il Covid, lo stress da pandemia, il disagio giovanile e altre attenuanti generiche. Sarà che per questi tafferugli non c’è un indirizzo a cui mandare la disdetta.

 

 

 

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