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Coronavirus
19.05.20 - 21:310
Aggiornamento: 05.06.20 - 11:47

Coronavirus in Ticino, il dottor Llamas: "Buone notizie. Ma noi medici dobbiamo avere il coraggio e l'onestà di dire che non sappiamo..."

Il vice primario dell'Area critica della Carità di Locarno: “Dovremmo cercare di raggiungere un equilibrio tra cautela, calore umano e responsabilità verso la società”

di Marco Bazzi

 

LOCARNO - Il Covid-19 sta mutando? Sta diventando più buono? O ci sta invece ingannando, e con la sua astuzia istintiva di virus che ha bisogno di noi per sopravvivere cerca semplicemente di farci abbassare la guardia? Sul futuro dell’epidemia - prossimo venturo - il dottor Michael Llamas, vice primario dell'Area critica all’Ospedale La Carità di Locarno, ha un approccio socratico: “So di non sapere”, è la sintesi del suo pensiero.

Llamas, che lavora nei settori di Medicina intensiva e Pronto soccorso, nelle drammatiche settimane dell’emergenza ha seguito giorno per giorno, al fronte, l’evoluzione dell’epidemia, e non se la sente, allo stato attuale, di sbilanciarsi.

 

In Italia, ma non solo, è in corso una sorta di dibattito tra scienziati e medici: un confronto tra tesi pessimistiche e un’evidenza clinica che indica un netto miglioramento della situazione. Il professor Alberto Zangrillo, primario dell’Unità di rianimazione all’ospedale San Raffaele di Milano, ha detto per esempio che negli ultimi 20 giorni sono arrivati nel suo reparto “solo” una ventina di malati, tutti con sintomatologia lieve e con patologie pregresse.

 

Anche in Ticino i dati su nuovi casi di infezione e decessi stanno diminuendo da diversi giorni. Abbiamo perfino avuto giornate con un “doppio zero”.

Anche a voi risulta che ci siano meno casi gravi dottor Llamas?

 “Certo, c’è una evidente diminuzione dei casi, ci sono meno pazienti in ospedale e da alcuni giorni nessun paziente è stato ricoverato in cure intensive. Quello che stiamo osservando è che le misure di contenimento hanno dimostrato un reale impatto sulla curva epidemica. Ma cosa succederà allentandole o eliminandole lo vedremo nelle prossime settimane”.

Insomma, la situazione è nettamente migliorata, ma lei è piuttosto cauto nel cantar vittoria…

“Guardi, credo che una delle cose più difficili, ma anche coraggiose, che noi medici dovremmo fare oggi è affermare che non sappiamo. Da una parte non dobbiamo dare parola alle nostre paure terrorizzando la popolazione, ma dall’altra non possiamo nemmeno dare rassicurazioni, perché non abbiamo elementi sufficienti per farlo. Dobbiamo quindi dire, onestamente, che non sappiamo cosa succederà, e che ci stiamo preparando al meglio a tutte le evenienze immaginabili, con i limiti di un sistema sanitario confrontato con una malattia ancora sconosciuta”.

Lei dice, quindi, che nonostante gli studi effettuati da eminenti specialisti del mondo intero e basati su esperienze concrete siamo ancora lontani dalla conoscenza…

“Esatto, perché per conoscere pienamente un virus occorre un’esperienza a più lungo termine. Sappiamo che il lockdown e la maggior consapevolezza maturata nella popolazione hanno avuto effetto, ma  non sappiamo se e come il virus riprenderà, se ha una relazione con la stagionalità, se con il caldo diminuirà la sua virulenza… Abbiamo iniziato a comporre un grande puzzle e abbiamo fissato i primi tasselli, ma non abbiamo ancora una visione d’insieme dell’immagine.

Cosa si sente di dire, dunque, ai ticinesi?

“Da medico che cura le persone e che ha vissuto questa esperienza al fronte, dico che dobbiamo essere prudenti, e pronti ad affrontare al meglio qualsiasi emergenza. Non sappiamo infatti quali effetti avrà a medio-lungo termine la revoca delle misure sanitarie. Ma, in positivo, aggiungo una cosa: se io fossi un virus cercherei di infettare molte persone ma anche di essere ‘gentile’, non troppo violento, perché se le mie vittime muoiono muoio anch’io. Pensiamo al banale raffreddore per esempio… E sempre in positivo, la storia ci insegna che non esiste un virus che abbia mantenuto a lungo la sua virulenza iniziale, che a un certo punto subentrano l’immunità di gregge o un mutamento del virus stesso. Oggi rispetto a marzo ci sentiamo maggiormente in grado di riuscire ad affrontare il Covid19, e probabilmente tra un anno lo saremo ancora di più. Però…”.

Però?

“Non tutto il libro di questo virus è stato ancora scritto. Ritorno quindi al punto iniziale: dobbiamo avere il coraggio di dire che non sappiamo. E poi, se parliamo di dibattito tra clinici e scienziati, qual è il confine? Secondo me non c’è. I medici lavorano sull’osservazione e trasmettono i dati di cui dispongono alla scienza, che li elabora. Così, pian piano, si arriva a una conoscenza più completa. Ma nella presa a carico e nella cura dei pazienti la parola fine non esiste: è un processo continuo”.

L’allentamento delle misure sanitarie rischia di generare nella popolazione la sensazione che la battaglia sia stata vinta e di diffondere atteggiamenti da “liberi tutti”. Cosa si può fare per evitarlo?

“Immaginiamo che ci sia un orso potenzialmente aggressivo nel nostro giardino… Ma che a un certo punto non si faccia più vedere. Cosa dovremmo fare? Uscire senza precauzioni? Io sarei piuttosto prudente, farei qualche passettino alla volta… Trasposto nella realtà che stiamo vivendo, direi che ognuno di noi dovrebbe essere consapevole che il proprio comportamento incide su una possibile ripartenza dell’epidemia. Occorre dunque continuare a osservare scrupolosamente le misure preventive: disinfettarsi e lavarsi le mani, rispettare le distanze sociali, e usare la mascherina nelle situazioni in cui la distanza sociale non può essere garantita. Quando all’inizio dicevo che la società è diventata più consapevole intendevo questo: mi proteggo come individuo, certo, ma come membro della comunità adotto comportamenti responsabili. E parlo in senso generale, includendo anche il non gettare in strada una mascherina usata, come ho visto fare qualche giorno fa. Cerchiamo di trarre qualche insegnamento da quello che è successo, lo dobbiamo non solo a chi potrebbe essere infettato ma anche a chi ha sofferto o è morto a causa di questa epidemia”.

E ai bambini che diciamo?

“Credo che non possiamo e non dobbiamo creare una generazione di bambini traumatizzati, non dobbiamo guardarli come potenziali untori ma, da adulti, cercare di dar loro esempi di comportamento responsabile. Ecco, credo che dovremmo cercare di raggiungere un equilibrio tra cautela, calore umano e responsabilità verso la società: trovare questa difficile triangolazione. Dobbiamo provarci”.

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