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29.03.20 - 18:010
Aggiornamento: 30.03.20 - 17:31

Coronavirus in Ticino: la curva che rallenta, il timore che non sia abbastanza e i sacrifici da non gettare al vento

Aprire al momento giusto sarà molto più difficile di quanto lo è stato chiudere nelle scorse settimane. Ed è allora che il nostro Cantone dovrà dimostrare compattezza

di Andrea Leoni

Nessuno si lasci prendere dallo sconforto o dai dubbi, perché sta funzionando. Nessuno esulti o ceda alla tentazione di allentare il rigore nei comportamenti personali, perché non stiamo ancora rallentando abbastanza e perché la maratona sarà ancora lunga e faticosa.

Lo abbiamo scritto negli scorsi giorni: il rallentamento della curva epidemiologica è come quella di un transatlantico. Occorrono spazio e tempo, una volta innescati i freni, prima che la nave lanciata a tutta velocità, si arresti. L’obbiettivo è quello di fermarsi prima dell’impatto con l’iceberg, o rendere lo scontro il meno traumatico possibile. Il transatlantico è il Ticino e il suo sistema sanitario, la frenata è l’appiattimento della curva e l’iceberg è il picco dell’epidemia, che in Ticino è previsto nella settimana di Pasqua o in quella successiva. Dobbiamo continuare ad avere abbastanza letti, macchine e personale, per riuscire a curare tutti i pazienti. Questo è il focus che non bisogna mai perdere di vista.

Le cifre giornaliere sono fuorvianti e possono portare a esaltazioni e depressioni facili, che stressano ulteriormente l’umore dei cittadini. Non vanno censurate, come qualcuno suggerisce da oltre confine, ma va spiegato alla popolazione che le stesse sono da ponderare sull’arco di più giorni. È il trend che conta. Su questi dati, poi, possono incidere fattori esterni. Franco Denti, ad esempio, ha spiegato che con l’apertura dei quattro checkpoint per i sospetti malati Covid19, è da prevedere un aumento dei casi positivi. Christian Garzoni ha aggiunto che vanno tenuti presenti anche i flussi di lavoro dei laboratori, chiamati ad analizzare i tamponi.

Ma detto questo, se si rapportano i dati di settimana in settimana, non c’è dubbio che le misure adottate dal Consiglio di Stato, sommate all’impegno di ogni singolo cittadino, stanno portando a risultati tangibili. Non si tratta affatto di uno sforzo inutile, come qualcuno potrebbe cominciare a pensare. Le varie analisi statistiche che si possono applicare al problema lo evidenziano con chiarezza. Del resto sarebbe bizzarro se non fosse così.

Sono infatti passati 14 giorni dal primo pacchetto di chiusura parziale delle attività (scuole, negozi, ristorazione, palestre….) che è stato seguito, con il ponte di San Giuseppe, dal lockdown vero e proprio, con il fermo di tutte le attività non essenziali, e qui siamo a 11 giorni. Questo insieme di provvedimenti continuerà anche per la settimana che comincia domani. Per avere un’idea - prendendo un parametro, tra i diversi possibili - se la scorsa settima la curva cresceva con una media del 19% circa, oggi siamo più o meno alla metà.

Non è quindi in discussione la strategia. Il sacrificio dei cittadini ticinesi sta portando un grande contributo alla causa. Il dilemma è legato alla tempistica. Di nuovo: stiamo frenando abbastanza per non schiantarci contro l'iceberg? Questa è l’unica vera domanda che conta da qui ai prossimi giorni. Per avere una risposta concreta occorrerà osservare con la lente d’ingrandimento soprattutto i numeri delle ospedalizzazioni e dei ricoveri nelle cure intense. Una crescita più moderata della curva rispetto alle settimane precedenti, come sta avvenendo, potrebbe infatti non essere sufficiente, con i numeri che abbiamo attualmente in Ticino. La percentuale di crescita, come è semplice intuire, su 100 casi ha un impatto, su 1’000 ne ha un altro e su 2’000 un altro ancora. Teniamo sempre ben presente che il Covid19 porta a ospedalizzazioni lunghissime dei malati più gravi - due o tre settimane - il che favorisce il temuto collo di bottiglia negli ospedali.

Ci sentiamo quindi di sostenere totalmente l’appello lanciato sabato dalle autorità cantonali. Ogni giorno in cui rispettiamo scrupolosamente le regole, è un giorno guadagnato per il sistema sanitario, che può reperire nuovi spazi, nuovo personale, nuove macchine. E, non da ultimo, può guarire persone, salvando vite e liberando letti.

In tutto questo va però ribadito un concetto forte e chiaro: nessuno s’illuda che almeno fino a fine aprile, ci si possa attendere un allenamento significativo della morsa delle misure restrittive più importanti. Peggio dei sacrifici che stiamo facendo, c’è soltanto l’opzione di buttarli al vento e dover ricominciare daccapo.

Questo potrebbe avvenire se si procedesse a riaperture frettolose o a causa di fattori esterni al nostro Cantone, come ad esempio l’arrivo in massa per le vacanze pasquali di nostri concittadini da oltre Gottardo, o per l’ostinazione degli ambienti economici svizzeri, che sembrano proprio non rassegnarsi all’idea di dover sacrificare il soldo sull’altare della salute pubblica, nel Paese più ricco del mondo.

Fanno cascare le braccia, e indignano, le dichiarazioni odierne del capogruppo UDC alle Camere Federali Thomas Aeschi, il quale già oggi si affretta a chiedere, un po’ come fatto da Matteo Renzi in Italia, una riapertura di commerci, ristoranti e parrucchieri dopo il 19 aprile.

È inimmaginabile, in questa crisi, non avere misure coerenti. Come potremmo pensare che il Ticino si muova in maniera diversa dalla Lombardia (errore già commesso, e perseverare è diabolico), o di Zurigo, al di là del numero dei contagi? Siamo troppo connessi per adottare politiche diverse e dovremmo ormai averlo capito.

In Ticino si contano, domenica 29 marzo, quasi 2’000 contagi e 100 morti. No, signor Aeschi, i cittadini di questo Cantone hanno già fatto abbastanza da cavie per l’intero Paese.

Aprire al momento giusto sarà molto più difficile di quanto lo è stato chiudere nelle scorse settimane. Ed è allora che il Ticino dovrà dimostrare compattezza. 

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