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L'Ippopotamo al Festival
12.08.18 - 12:250
Aggiornamento: 13.08.18 - 14:47

Locarno Film Festival, le critiche (costruttive) a Carlo Chatrian e la rivelazione della "Semaine de la critique"

Il film "dimenticato" è un illeggibile titolo ungherese che a prima vista sembra, ohibò, riabilitare la vituperata Ungheria "popoluista e xenofoba" di Orban

Finito. Si torna negli stagni consueti, quelli ceresiani. Magari passiamo dalla Tresa, in contromano (è una nostra passione). Prima di una nota su un bel film di cui ci eravamo dimenticati, diciamo due parole su quest’ultima edizione di Carletto Chatrian.

Tutti qui, negli ambienti della critica, sussurravano in questi giorni il refrain “E’ un’edizione ai saldi, si vede che il direttore ha già le valige pronte”. Ci sembra ingiusto. Non si valuta un’edizione  sulla base delle presenze, in calo. Se mai c’era da risparmiare un po’ di soldi, dopo i fasti dell’edizione del 70°. E Carletto aveva messo le mani avanti: “Sarà un’edizione un po’ leggera”.

Può darsi, ma lui ha fatto il suo lavoro con la solita bravura e diplomazia. Se possiamo fargli un appunto è sul fatto che, di fronte a ogni critica relativa alle scelte tematiche (e quindi ai contenuti sociali, culturali, politici) operate da lui e dai suoi collaboratori, sciorina sempre la solfa del cinema che è arte. Ok, non c’è dubbio. Ma l’opera d’arte è uno strumento di conoscenza della realtà, se non vuole ridursi a puro esercizio di linguaggio.

E ogni film si assegna un soggetto, si propone di entrare in un aspetto o in un altro della realtà. Molta cinematografia degli ultimi anni (che del resto non è nei gusti di Chatrian) si avvitava sull’io dell’autore, con stucchevole soggettivismo. Quando si selezionano dei film per un festival si tiene pur conto, perbacco, dei soggetti. E’ qui che le scelte possono essere discutibili, oltre che per il valore artistico delle opere come tali. La nostra stazza non ci ha permesso di sguazzare di sala in sala, abbiamo visto pochi film.

Per questo non possiamo sentenziare sulla ricchezza d’insieme, sulla pluralità e sull’apertura angolare dell’affresco complessivo di questa 71esima edizione. Per quel che abbiamo visto ci è sembrata un’edizione riuscita. Ma veniamo al film “dimenticato”.

Al Festival di Locarno c’è una sezione intitolata “Semaine de la critique”, indipendente dalla direzione del festival e diretta da Marco Zucchi (apprezzato critico cinematografico della RSI e anche, per anni, del caro vecchio stagno preferito da noi ippopotami, il Giornale del Popolo). E’ alla Semaine che abbiamo visto anche quest’anno una delle opere più interessanti della manifestazione locarnese (l’anno scorso vi incontrammo una coraggiosa regista arabo saudita che aprì squarci inediti sulle origini del fondamentalismo islamico).

Si tratta di (non spaventatevi, è un illeggibile titolo ungherese) “Könnyu leckék” (“Facili lezioni”, alla lettera). Un documentario, come tutte le opere presentate alla Semaine. Dunque una storia vera. La storia di Kafia, una ragazza somala fuggita dal suo Paese, con l’avallo della madre, per sottrarsi a un matrimonio forzato con un uomo anziano, e giunta poco più che bambina, dopo un anno di peripezie, in Ungheria.

Dunque nel Paese governato da quel Viktor Orban che il mainstream media ci dipinge da anni come una delle più inquietanti figure di “sovranista” e che, in effetti, non ha mai dato l’impressione di volersi sporcare troppo le mani con il fenomeno migratorio (uno dei soggetti, come già notavamo, che non possono mancare nel cinema contemporaneo e quindi nella trama di un festival).

Ma c’è da registrare subito una sorpresa: la Semaine ha selezionato con intelligenza un film che a prima vista sembra, ohibò, riabilitare la vituperata Ungheria “populista e xenofoba” di Orban. E in effetti non si può che registrare quanto il documentario mostra inequivocabilmente: il foyer in cui Kafia viene ospitata per alcuni anni è una casa di accoglienza reale, non un deposito per colli ingombranti.

C’è un clima tangibilmente famigliare, c’è molta attenzione alle esigenze delle persone, si insegnano con pazienza le lingue, non solo l’impervio ungherese, si frequentano corsi per ottenere i diplomi delle scuole locali, si scelgono gli sport adatti a ciascuno, si fa il teatro, eccetera. Non c’è propaganda filogovernativa, c’è solo un po’ di fierezza nel presentare la storia e la cultura magiare.

Dubitiamo che in Svizzera vi siano centri di accoglienza per immigrati di questa fattura, efficaci, dotati di mezzi notevoli, capaci di integrare con questa delicatezza. La nostra Kafia attraversa anche momenti difficili, poi alla soglia dei 18 anni si innamora di un ragazzo ungherese e frequentandolo decide –liberamente, spiega lei stessa in un video preparato per la madre- di lasciare l’islam e diventare cristiana (in una comunità evangelica). Insomma, il “metodo Orban” sarà per pochi, forse, ma andrebbe segnalato alla spocchiosa Europa di Bruxelles perché ne tragga insegnamento. Ma… C’è un “ma”, in realtà. E non da poco.

La regista, a nostro parere abilissima, introduce sin dall’inizio e con assoluta discrezione un elemento di contrasto: lo fa dando spazio a una sorta di monologo interiore di Kafia che si sovrappone di tanto in tanto come un’interferenza all’audio del filmato; in realtà si tratta di quelle riflessioni/confessioni che la ragazza registra nel video per la madre.

E cosa ne emerge? Un dato di grande interesse: se è vero che Kafia si integra con sorprendente rapidità nella realtà ungherese, è però anche vero che la giovane coltiva nel proprio animo una nostalgia struggente del proprio Paese e soprattutto della sua cultura, dei suoi costumi, della sua religione. E insieme alla nostalgia il rimorso e l’ansia per le reazioni che i suoi cambiamenti potrebbero suscitare nella madre.

Tant’è che nell’ultima sequenza Kafia, sentendosi nuovamente sradicata in quanto, avendo raggiunto l’età di 18 anni, è obbligata a lasciare il foyer che l’aveva accolta ed educata, indossa il velo islamico e si immerge in una video telefonata con la madre. A noi sembra che la regista colga un nodo non affrontato (in apparenza) dalla quasi perfetta “struttura” di accoglienza.

Potremmo sintetizzarlo in tre parole: integrazione non può significare assimilazione, ma deve diventare incontro. Ovvero: chi accoglie non può restare indifferente e disinteressato alla cultura di cui l’immigrato è portatore. Nel film la ragazza non è mai indotta a raccontare, non sembra poter condividere con nessuno le sue domande, le sue incertezze ma anche la bellezza delle sue tradizioni, che riassapora nei ricordi.

Occorre un incontro con chi accoglie, e in questo senso non può bastare una “struttura”. Bene o male, con poca o tata consapevolezza il migrante incarna il suo patrimonio culturale (dalla lingua alla cucina, fino alla religione). Esso è comunque sempre una ricchezza, che va giocata, anzitutto, negli incontri personali.

E la stessa cultura di chi accoglie, da quella delle persone fino a quella, nel tempo, del Paese che integra, non ne può restare indenne. Qualcuno ha parlato di “meticciato”. Di culture prima ancora che di razze. Lo può temere solo chi non è consapevole, immedesimato, padrone della propria identità culturale, con tutta la criticità necessaria.

Ma se un incontro non accade, il rischio che si corre è che le persone “assimilate” nei nostri Paesi europei restino delle mine vaganti, pronte ad esplodere in modalità problematiche inattese, o anche a trasmettere tale potenziale alle seconde o terze generazioni.

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